di Francesco Minici
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E’ trascorso più di un anno dal 9 gennaio 2013, giorno in cui tre attiviste curde furono trovate uccise a Parigi: Sakine Cansız (una delle fondatrici del PKK, insieme al leader Abdullah Öcalan, nel 1978), Leyla Söylemez e Fidan Doğan, responsabile dell’ufficio culturale e rappresentante del Congresso Nazionale del Kurdistan (KNK) con base a Bruxelles. In quei giorni la pubblicistica di settore e la stampa internazionale non hanno mancato di dar voce ad autorevoli esperti al fine di prevedere le ripercussioni di lungo periodo che quel gesto avrebbe avuto sull’allora rinnovato slancio dato ai negoziati di pace tra il governo di Ankara e il PKK (Partîya Karkerén Kurdîstan, Partito dei Lavoratori Curdi). La “questione curda”, riferita al conflitto che dal 1984 vede impegnati i militanti del PKK e l’esercito turco, è di notevole complessità e meritevole di un’analisi alla luce dei più recenti sviluppi. Partendo dalle conclusioni, preme sottolineare che il processo di pace tra governo e PKK resta a distanza di un anno fragile, con occasionali fiammate di violenza. Lo dimostrano i presunti atti vandalici dello scorso dicembre su tombe di militanti del PKK in Yüksekova (nella provincia orientale di Hakkari) e l’uccisione di alcuni manifestanti in questa stessa città e a Şırnak mentre l’attuale leader del PKK Cemil Bayık avvisava sul rischio di un nuovo fallimento del processo di pace a causa delle tecniche dilatatorie dell’amministrazione del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, Adalet ve Kalkınma Partisi (AKP). Allo stesso tempo Bayık ha segnato come termine ultimo per un accordo l’inizio della primavera del 2014 prima che anche questo tentativo naufraghi irreparabilmente e si riprendano le armi.
L’analisi
Al fine di analizzare l’evoluzione del dialogo tra AKP e PKK emergono vari profili e rilievi critici meritevoli di trattazione. Si considerino quindi due profili maggioritari, uno inerente alle vicissitudini interne del partito di maggioranza turco, l’altro agli aspetti internazionalistici del problema alla luce del suo significato nel contesto delle dinamiche regionali di riferimento.
Da un punto di vista interno, si dica in via di prima istanza che la Turchia si appresta ad entrare in un biennio elettorale cruciale e nella maniera più turbolenta. Proteste, epurazioni e cambiamenti nelle coalizioni di governo minano la continuità del Primo Ministro Recep Tayyip Erdoğan al potere. La calendarizzazione degli appuntamenti è fitta: si parte dalle municipali di marzo 2014, si continua con le presidenziali di agosto e si conclude con le elezioni legislative di giugno 2015. Tre appuntamenti che diventano un banco di prova importante per testare la maturità politica del Primo Ministro. Le questioni economiche rivestono pari importanza. La crescita del Paese ha rallentato nel 2013, la Lira soffre il rialzo dei tassi d’interesse stabilito dalla FED e continua a svalutarsi a ritmi mai conosciuti da quando Erdoğan è salito al potere nel 2002. Ad ogni modo è bene ricordare che gli anni elettorali, de facto, complicano la vita ai processi di pace, soprattutto alla luce di un possibile cambio tra gli interlocutori al tavolo negoziale. Occorre poi accennare ai rischi esterni che Ankara corre nei rapporti con il PKK nel quadro regionale alla luce dei recenti sviluppi del quadro energetico. A metà gennaio di quest’anno, infatti, il governo del Kurdistan iracheno ha annunciato il completamento dell’oleodotto che collega la regione con il porto di Ceyhan in base agli accordi firmati con la Turchia nel maggio del 2012. Sono varie le imprese petrolifere nazionali ed estere ad essere coinvolte. Parallelamente all’annuncio, si è dato avvio alle prime operazioni di pompaggio delle ingenti riserve di idrocarburi della regione verso la Turchia – si noti bene al di fuori del controllo da parte del governo centrale iracheno – con lo scopo di raggiungere entro il 2015 la soglia di esportazioni di circa 400.000 barili giornalieri. La mossa ha fatto infuriare Baghdad, che rivendica l’unica autorità per gestire il petrolio iracheno. Il Primo Ministro Nouri al-Maliki, intercettato dalla Reuters, l’ha definita una violazione costituzionale inaccettabile diffidando la Turchia dall’interferire in una questione di mera sovranità irachena e minacciando ritorsioni sulle imprese turche nel Paese. Le prospettive date da una normalizzazione dei rapporti con il PKK, il cui nuovo slancio è stato dato proprio dal rinnovato rapporto privilegiato con il Governo Regionale del Kurdistan iracheno (KRG), trovano dunque una sponda nell’ambito della strategia di diversificazione energetica di cui Ankara ha bisogno.
In secondo luogo occorre considerare la questione siriana. Questa si riverbera con urgenza sull’agenda di politica estera turca. In Siria Ankara punta a raggiungere obiettivi di valenza regionale sebbene alcune finalità sembrano escludersi a vicenda. Il rovesciamento del regime di Assad è perseguito attraverso la ricerca dell’assistenza di Masoud Barzani, leader curdo iracheno, al fine di spingere la popolazione curda in Siria ad unirsi alle forze di opposizione contro il governo alawita. Il rischio più grande per Ankara è evidentemente rappresentato da una possibile evoluzione di questa strategia, nel senso di un’eventuale creazione di un’entità curda in territorio turco che catalizzi ed esalti ulteriormente le aspirazioni autonomiste della popolazione curda di Turchia. Inoltre, l’obiettivo del regime change in Siria è un compito reso ancora più arduo dalla chiara partecipazione della Russia nel mantenimento di Assad al potere, mentre l’Iran – l’altro alleato forte siriano – intrattiene rapporti anche con il “moderno” Iraq. Ciò che emerge nuovamente sono, infatti, le relazioni turco-irachene: colorate da un passato di dominazione ottomana, queste sono di fatto deteriorate e si specchiano nella lotta intestina tra sunniti e sciiti. Mentre la Turchia ha ufficialmente dichiarato il proprio sostegno per l’integrità territoriale e l’unità nazionale dell’Iraq, le sue azioni hanno contribuito ad incrinare i rapporti con il governo centrale di Baghdad. Al-Maliki, sciita, è considerato troppo vicino all’Iran. Inoltre, il fatto che la Turchia abbia fornito rifugio all’ex vice Presidente iracheno Tariq al-Hashemi, accusato da al-Maliki di stabilire squadroni della morte contro gli sciiti, non ha facilitato il dialogo. Quanto detto stride con le enunciazioni sulla condotta dell’azione turca in politica estera di “buon vicinato”. Sia che si tratti di sostenere una rivolta in Siria o di incoraggiare i curdi del nord dell’Iraq, Ankara di fatto offre un’azione di realpolitik attraverso un’analisi di costi-benefici contingentata. In particolare, i guadagni a breve termine, come il trasferimento di petrolio curdo iracheno attraverso il suo territorio, sono più o meno evidenti mentre rischi come quello di perdere il suo accesso via terra alla Penisola Arabica, sono da calcolare in un lasso temporale di più lungo termine.
Erdoğan, il 2014 dopo un anno difficile
L’inchiesta sulla corruzione che ha investito il governo turco e le alte sfere economiche del Paese a fine 2013 sta mettendo nell’angolo il Premier Erdoğan e la tenuta del suo Esecutivo. La sintonia nata con il “Movimento Hizmet”, una rete informale e molto influente creata attorno alla personalità di Fethullah Gülen in funzione anti neo-kemalista, appare compromessa. Un buon numero di responsabili dell’AKP ha persino accusato il movimento di Gülen di essere l’istigatore delle proteste di Gezi, mentre altri membri del partito rimproveravano alla polizia – infiltrata secondo loro da gulenisti – di aver eseguito una repressione esagerata dei manifestanti allo scopo di gettare discredito sul governo. Il movimento conta su una presenza significativa negli apparati di polizia e nella magistratura, nonché nel settore dei media e dell’educazione e proprio i suoi procuratori hanno messo in luce una vasta rete di corruzione, nazionale e internazionale, in cui sono implicati dei membri del governo e i loro parenti. L’AKP ha dato vita ad un rimpasto di governo ed ad una serie di epurazioni tra le file della polizia e dei funzionari della giustizia con oltre 1.700 funzionari trasferiti o dimessi. La crisi di Stato potrebbe mietere la “vittima” più illustre proprio nel processo di pace che il governo ha lanciato alla fine del 2012 con il movimento curdo e il suo leader in prigione. Ai sensi dello Statuto dell’AKP, Erdoğan non può correre per un altro mandato come Primo Ministro; è invece molto probabile che egli sarà il candidato alle presidenziali senza però che l’AKP sia ancora riuscito a far approvare una nuova Costituzione che trasformi l’attuale regime in un sistema semi-presidenziale conferendo, come nei piani, poteri forti al Presidente della Repubblica. Proprio su quest’ultimo punto è interessante notare come la questione curda sia strettamente legata alla ambizioni politiche di Erdoğan. Occorre considerare che le intenzioni del partito di modificare la Costituzione turca per dare al Presidente poteri esecutivi più forti era una delle priorità al momento della ripresa dei colloqui con il PKK. L’AKP necessitava dei voti in Parlamento del Partito curdo per la Pace e la Democrazia (BDP, che detiene 33 seggi all’interno Assemblea). L’accordo di pace con il PKK prometteva quindi di rivedere la Costituzione in cambio di un ampliamento dei diritti culturali dei curdi e dell’ampliamento della definizione di cittadinanza turca. Tuttavia, questa prospettiva ha destato molte preoccupazioni interne ed esterne in coloro i quali intravedevano nel nuovo regime una forma di autoritarismo mascherato. Varie riforme sono comunque state annunciate lo scorso settembre: una sorta di pacchetto “democratizzazione” che ricomprende l’abbassamento della soglia elettorale dal 10% al 5%; un inasprimento per le pene legate ai reati di odio su base religiosa, nazionale o etnica; maggiore libertà di assemblea, etc. Erdoğan, nell’occasione, ha parlato di momento storico, ma il BDP ha definito le riforme tardive e insufficienti. Alla luce di ciò acquistano rilievo le premesse del tavolo negoziale con il PKK. In primo luogo, Ankara rivendicava che il movimento curdo cessasse le sue rivendicazioni territoriali o di separazione amministrativa; in secondo luogo, e a livello internazionale, la Turchia chiedeva ai curdi “cooperazione in Siria”. Le resistenze al negoziato vengono sia da forze interne alla Turchia (in ragione verosimilmente delle questioni sopraesposte sul cambio della forma di governo) sia però anche dalla controparte curda che non è mai stata un’etnia monolitica ma spesso disunita e segnata da lotte interne (la leadership del PKK in libertà è attiva e rintanata sui monti Qandil, nelle aree di confine tra Turchia-Iraq-Iran, mentre vi sono frange dure che prendono ordini altrove). Non è un caso dunque che l’accordo tra Erdoğan e Öcalan in Turchia sia nato proprio nel nord nel Kurdistan iracheno: un terreno dove convergono interessi comuni di ordine strategico e regionale. È importante notare che i curdi che lottano ancora per il separatismo in Turchia oppure quelli che appartengono a gruppi sponsorizzati da stati rivali di Ankara – Siria e Iran – sono contro questo progetto e hanno tutto l’interesse che questo deragli.
Probabilmente l’instabilità interna che la Turchia sta vivendo in questi ultimi mesi e che mina la leadership di Erdoğan preoccupa molto di più il PKK. Il movimento curdo ha infatti de facto legittimato il leader di AKP a negoziare, tanto che lo stesso Öcalan si è allineato con la definizione del Premier di “colpo di Stato” per lo scandalo di corruzione che ha investito il Paese, aggiungendo che l’intento nascosto fosse quello di colpire proprio il processo di pace. Il riferimento al movimento gulenista appare evidente. Brevemente, si potrebbero aprire due scenari. Il primo vede Erdoğan essere costretto a rinunciare al potere politico insieme o senza l’AKP; il secondo vede Erdoğan e l’AKP ancora al potere ma con una perdita di legittimità e uno Stato di diritto più deboli che esporrebbero il Paese a molte critiche internazionali e che probabilmente interromperebbero ancora il dialogo di adesione con l’UE. In entrambi i casi le possibilità di riattivare il processo di pace rimarrebbero molto ridotte.
Kurdistan iracheno e Turchia
Come si accennava, il cambiamento strategico più importante è stato il forte miglioramento nelle relazioni della Turchia con il governo regionale curdo nel nord dell’Iraq. Nel periodo l990-91, immediatamente dopo la seconda Guerra del Golfo, la Turchia ha rifiutato di avere contatti ufficiale con il KRG, temendo la nascita di uno Stato curdo indipendente sul suo confine meridionale. Dal 2009, però, entrambe le parti sono giunte a riconoscere che essi condividono interessi comuni. Le loro economie sono sempre più interdipendenti: circa l’80% delle merci vendute nel KRG sono realizzate in Turchia, 1.200 imprese turche operano attualmente nel nord dell’Iraq (per lo più nella costruzione, ma anche in esplorazione di pozzi di petrolio). Anche se le risorse petrolifere della regione curda sono solo un decimo circa del totale di quelle dell’Iraq, sono comunque altamente significative nel contesto di una popolazione di quasi 5 milioni. Il governo regionale del Kurdistan prevede di raggiungere la capacità di produzione di 1 milione di barili al giorno entro il 2016 con ricavi di circa 35 miliardi dollari all’anno ai prezzi attuali del petrolio.
Queste risorse sono state in gran parte scoperte nel 2005 da varie compagnie petrolifere internazionali (IOC). Il Ministero del Kurdistan per le risorse naturali ha selezionato con cura i propri partner per dare una grande varietà di rappresentanza: turca, europea, canadese, americana, cinese, indiana, russa.
Il governo turco ritiene dunque che la costruzione di una partnership con il Kurdistan porterà ad una serie di vantaggi strategici. In prima linea risiede il fatto che la Turchia sarà in grado di ridurre la propria dipendenza dal petrolio da fornitori esteri, indirizzando queste risorse petrolifere verso la propria crescita e lo sviluppo economico. In seconda battuta, come detto, interviene la possibilità di risoluzione della questione curda come metronomo della presenza turca all’interno della regione. Ankara deve ora però far fronte al’ira del governo iracheno, dal momento che Baghdad vede il nuovo “momentum” curdo-turco come una forza potenzialmente disgregatrice del Paese. Questa è senza dubbio una preoccupazione che condivide con la Turchia stessa, dal momento che analoghe rivendicazioni di mutilazioni territoriali potrebbero dall’indipendenza curda ripercuotersi sui curdi di Turchia (la cui popolazione e superficie territoriale è tre volte maggiore della loro controparte). Ankara ed Erbil hanno migliorato anche simbolicamente la qualità delle proprie visite ufficiali e una delegazione turca è stata ricevuta anche a Diyarbakir, la città che i curdi considerano loro capitale storica. Si nota dunque che gli interessi comuni tra Turchia e Kurdistan, per quanto profondi, restano comunque contraddittori e a rischio di entrare in collisione nel lungo periodo. Probabilmente ciò che incoraggia la Turchia ad approfondire le sue relazioni con il Kurdistan in questo momento così complesso sono le divergenze con Baghdad sulla gestione dei rapporti con l’Iran, tra i principali fattori delle spaccature sulla crisi siriana. Nel frattempo, la questione curda ha sicuramente riassunto centralità nell’equazione regionale come non avveniva da decenni. La lettera pubblicata sul Guardian da Öcalan il 5 dicembre 2013 in seguito alla morte di Nelson Mandela, in cui difende l’evoluzione del movimento del PKK, i cambiamenti nel corso degli anni e i nuovi venti di pace in corso, segnano uno slancio evidente dell’attualità dell’argomento perfettamente incastonato nella contingenza degli eventi intercorsi in Medio Oriente con l’inizio delle cosiddette Primavere Arabe.
Altre minacce per un accordo regionale
In Siria il Democratic Union Party (PYD) – che ha stretti legami con il PKK – è stato in grado di controllare de facto cinque città. La Turchia di fatto teme che queste possano diventare basi logistiche per gli attacchi del PKK contro le forze di sicurezza turche, cosa che ha fatto sì che Ankara si esprimesse a favore di un intervento militare. Inoltre, anche in Iran il governo ha dovuto affrontare una rivolta curda: qui il movimento è guidato dal partito Party for a Free Life in Kurdistan (PJAK), affiliato al PKK. In alcune occasioni la Turchia e l’Iran hanno raccordato i loro sforzi condividendo informazioni per combattere gli attacchi di PKK e PJAK. Tuttavia, il difficile rapporto tra i due Paesi montato con la questione siriana ha ridotto lo spazio cooperativo.
In questo scacchiere geopolitico regionale anche la Russia ha un ruolo rilevante alla luce di una lunga storia di relazioni amichevoli con i curdi: nel febbraio 2013 Barzani ha visitato il Paese attestando la decisione di Mosca di diversificare la propria cooperazione economica con l’Iraq; inoltre Gazprom Neft progettava di investire 1 miliardo di dollari in Kurdistan fino a giugno del 2015. La Turchia resta inoltre uno dei principali partner economici della Russia: il volume degli scambi commerciali tra i due Paesi dovrebbe raggiungere i 100 miliardi dollari l’anno prossimo. Mosca e Ankara hanno entrambe di conseguenza chiuso le loro relazioni con la frangia più oltranzista del PKK e con i separatisti ceceni, dimostrando i loro interessi comuni nella lotta al terrorismo e nella protezione della loro integrità territoriale. Tuttavia, la Russia non ha inserito il PKK nella sua lista delle organizzazioni terroristiche perché il gruppo non costituisce minaccia per la sicurezza russa. Il disaccordo tra Mosca e Ankara sulla Siria rivitalizza vecchi sospetti: la Russia, l’Iran e la Siria di Assad vedono nel PKK uno tra gli strumenti più importanti per arginare l’influenza turca nella regione. Sovente politici russi sottolineano l’importanza di coinvolgere curdi siriani nei colloqui sulla Siria: ciò riflette evidentemente la strategia generale del Cremlino di ampliare la composizione dei partecipanti in questo processo, incorporando tutti i segmenti della Siria per mantenerne l’integrità territoriale.
Conclusioni
Non pare un caso che l’accordo di fornitura energetica tra Turchia e Kurdistan iracheno sia stato implementato parallelamente alla ripresa dei colloqui con il PKK. Ankara è conscia dell’evidente effetto spill-over che questo potrebbe portare sulla popolazione curda nel Paese. Così come le due pipeline Baku-Tbilisi-Ceyhan e il Baku-Tbilisi-Erzurum hanno subito continui sabotaggi dal PKK perché attraverso aree curde, il nuovo oleodotto è destinato, nella visione di Ankara, ad apportare benefici nel sud-est della Turchia, nella parte cioè storicamente più arretrata del Paese. La sostenibilità del processo di pace con il PKK rimane però altamente imprevedibile sul lungo periodo: fattori sociali, di narrativa e retorica che imperversano in oltre trent’anni di lotta rimangono nodi importanti da sciogliere. L’individuazione però di aree di mutuo interesse che sostengono il tavolo negoziale rimangono importanti lasciti nell’eredità di Erdoğan, qualunque sia il suo futuro.
* Francesco Minici è Dottore in Relazioni Internazionali (Università per stranieri di Perugia)
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