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Turchia: un paese tra Oriente e Occidente

Creato il 04 marzo 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Turchia: un paese tra Oriente e Occidente

Quello che segue è il discorso pronunciato da Giacomo Guarini, ricercatore associato dell’IsAG (Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie) e redattore di “Geopolitica” lunedì 27 febbraio, presso lo Shenker Culture Club, all’inaugurazione della mostra fotografica “Turchia: un paese tra Oriente e Occidente”.

 
Vi ringrazio sentitamente per avermi permesso di essere qui a discutere di un paese di estremo interesse, anche secondo una prospettiva geopolitica, che è quella dalla quale mi è stato chiesto di provare a fornire elementi utili.
Il primo rilievo che possiamo fare può derivare dal dato geografico-culturale espresso nel titolo di quest’incontro: la Turchia è un paese fra Oriente ed Occidente. Di più, è una penisola che è snodo fondamentale per la sua collocazione in rapporto alla massa continentale eurasiatica – guardando quindi ad un ipotetico asse Est-Ovest – ma è anche elemento di raccordo vitale di direttrici Nord-Sud, quali l’incontro fra le opposte sponde del Mediterraneo, nonché di collegamento fra lo stesso Mar Mediterraneo ed il Mar Nero.

La questione sulla quale vorrei dunque soffermarmi in questo breve intervento è: quanto la Turchia è andata mutando il proprio rapporto con questo suo “destino geografico”, il cui elemento maggiormente evidente è – abbiamo visto – la natura di crocevia di una pluralità di assi fondamentali? E in che misura, quindi, il paese può sfruttare le potenzialità e compensare le debolezze derivanti dalla propria collocazione geografica?

Il tempo non permette una disamina storica dei rapporti che la Repubblica turca ha instaurato sin dalla sua nascita con i propri vicini e con le grandi potenze del globo, tuttavia possiamo rilevare come, fra alti e bassi, la storia della Turchia moderna abbia visto per decenni il paese fondamentalmente legato al blocco occidentale, in una forma che non le permetteva di esprimere a pieno la sua natura di ponte fra diversi mondi ed anche un ruolo consolidato di potenza regionale che diversi fattori – e non da ultimo quello geografico, qui continuamente accennato – avrebbero potuto garantirle. La fine della Guerra Fredda ha sicuramente spinto il paese verso la ricerca di una nuova proiezione nella propria area geografica di riferimento, ma è effettivamente nei primi anni del nuovo secolo che abbiamo visto emergere vistosamente segni di discontinuità forte rispetto ai decenni passati, con quella congiuntura politico-istituzionale che ha portato ad affermarsi alla guida del paese tre figure-chiave:

  • Abdullah Gül: eletto come Primo Ministro per il partito Akp nelle elezioni legislative del 2002, rassegnerà le dimissioni nel 2003 per lasciare il posto al suo compagno di partito Erdoğan. Nel 2007 verrà nominato Presidente della Repubblica Turca;
  • Recep Tayyip Erdoğan: verrà riconfermato come Primo Ministro con larga preferenza anche alle ultime elezioni del 2011;
  • Ahmet Davutoğlu: politologo, diverrà prima consigliere di Erdoğan e poi Ministro degli Esteri nel 2009.

Il parterre dei relatori: Giacomo Guarini è il primo da destra
Cosa cambia con l’affermazione di questi uomini politici nelle relazioni del paese e nello sviluppo delle sue potenzialità dal punto di vista della politica estera e collocazione geopolitica?

Evidente è al riguardo l’influenza data dalle idee di Davutoğlu come teorico e professore universitario; idee che hanno trovato più immediata ed organica espressione nell’opera Profondità strategica, nonché nel motto ormai più che celebre di “zero problemi con i vicini”. Una nuova visione strategica è dunque emersa negli ultimi anni; una strategia basata sul tentativo di ristabilire buoni rapporti di vicinato che facessero da apripista ad una rinnovata influenza economica, politica e strategica di Ankara sui paesi vicini e su quello spazio in larga parte già di pertinenza ottomana (da cui la ripresa dell’espressione “neo-ottomanesimo”, già utilizzata al tempo della crisi di Cipro). Segnali eloquenti di simili spinte sono stati diversi: il divieto di uso di basi militari sul proprio suolo per la guerra in Iraq, l’impegno diplomatico nel Balcani, i tentativi di distensione con l’Armenia, l’ostilità verso Israele a partire dalla questione palestinese, la ricerca di mediazione sulla questione nucleare iraniana e così via.

I buoni rapporti che Erdoğan stava intessendo con alcuni governi vicini, in particolare quelli di Gheddafi e di Assad, sono stati però sacrificati per assecondare la sconvolgente ondata delle rivolte arabe e per non farsi estromettere, ma anzi inserirsi, fra quelle potenze globali e regionali che su più fronti – dalla copertura mediatica fino all’intervento militare – hanno sostenuto simili fenomeni di ribellione anti-governativa; ciò evidentemente al fine di tener testa ai rivolgimenti regionali, cercando di limitarne gli effetti destabilizzanti potenzialmente gravi e, laddove possibile, trarne finanche vantaggio. La scelta del governo turco di scaricare i governi oggetto di proteste nell’area è stata sicuramente sofferta e meditata (di certo più che non per i principali attori esterni intervenuti a sostegno delle rivolte nel Mediterraneo): segni di tale ‘sofferenza’ sono stati un timido richiamo al rispetto della sovranità durante le proteste in Egitto, il rifiuto di intervento militare nello scenario libico e l’invito ad attuare le riforme in Siria; segni poi ai quali sono seguiti bruschi cambi di posizione concretizzatisi rispettivamente nella richiesta a Mubarak di lasciare il potere, nella partecipazione all’intervento militare in Libia e nell’attivo impegno contro il governo di Assad su più fronti. Una simile strategia sembra aver pagato, almeno in parte e nel breve periodo, dal momento che si è a più riprese parlato in Egitto e Tunisia di “modello turco” (con tutti gli interrogativi che simili prese di posizione, nonché la stessa astratta definizione di “modello turco”, comportano) dopo il fruttuoso viaggio di Erdoğan fra i paesi nordafricani attraversati dalle rivolte, il quale ha costituito anche occasione di una rinnovata spinta nelle relazioni economiche e di cooperazione nell’area.

I recenti fenomeni di destabilizzazione della regione rappresentano ancora oggi fattori di grande incognita nei loro sviluppi, nonostante abbiano sicuramente perso l’appeal mediatico di alcuni mesi fa; quale ruolo possiamo auspicare per la Turchia in questo contesto, a partire da una prospettiva che guardi tanto alla stabilità dell’area, quanto al consolidamento della Turchia stessa come potenza regionale e – non da ultimo – alla tutela e al consolidamento invece degli interessi del nostro paese?

Un momento della conferenza

Bisogna anzitutto ribadire che i rivolgimenti in corso non hanno ancora prodotto nuovi assetti pienamente consolidati e che il rischio che emergano piuttosto nuove ed ampie forme di conflittualità è molto elevato, in un’area che era già altamente instabile. Forme di conflittualità etniche, confessionali e sociali potranno infatti seguire a quello sconvolgimento degli assetti di potere che vede un’inevitabile ascesa dell’Islam politico, in particolare – ma non solo – con le diverse espressioni della Fratellanza Musulmana che assumono ruoli molto influenti nella vita politica e civile dei paesi attraversati da regime change realizzati o, per ora, solo tentati. E d’altronde la stessa Fratellanza rappresenta una forza tutt’altro che monolitica, le cui linee politiche direttrici nell’immediato futuro sono ancora ampiamente indecifrabili. A coronare l’imprevedibilità di questi scenari quanto mai incerti vi è la forte presenza di attori regionali o globali (fra le fila del blocco occidentale e delle monarchie del Golfo, come ricordato in nota), il cui attivismo in scenari quali quello siriano o iraniano rischia di condurre a situazioni di crisi incontrollabile non solo nella regione vicinorientale, ma finanche a livello globale. In questo contesto la Turchia potrebbe effettivamente dare un importante contributo alla stabilizzazione, perseguendo in ciò un proprio interesse primario a causa della sua posizione geografica di penisola ‘immersa’ nell’area in questione. A tal fine la Turchia dovrebbe attuare ogni sforzo possibile per scongiurare contrapposizioni nette e per non lasciarvisi coinvolgere; molto vi sarebbe da dire al riguardo, ad esempio, sulla gestione turca della crisi siriana, la quale poteva essere condotta molto meglio, senza così forti ingerenze negli affari interni del paese vicino e assumendo una posizione maggiormente bilanciata rispetto alle istanze delle grandi potenze continentali russa e cinese: per quanto paradossale ciò possa sembrare, un simile atteggiamento avrebbe probabilmente permesso una gestione molto più efficace della crisi, anche se ciò avrebbe sicuramente significato per la Turchia dover tener testa a forti pressioni esterne. E così anche sulla questione iraniana, nella quale i segnali che provengono da Ankara non sono ancora netti, la Turchia dovrebbe impegnarsi nel cercare una mediazione con un vicino così importante dal punto di vista strategico, economico ed energetico, come d’altronde ha già tentato di fare con il tentativo di mediazione sulla questione nucleare iraniana nel 2010, trovando in quell’occasione sponda nel Brasile; un’operazione risultata infine infruttuosa, ma non di certo, a mio parere, a causa dei due soggetti mediatori, né dello stesso Iran.

Negli scenari di crisi menzionati, ed in altri possibili della regione, non gioverebbe alla Turchia costituire l’avamposto armato delle istanze più aggressive del blocco occidentale o anche, in ogni caso, base di destabilizzazione delle realtà ad esso avverse nell’area. E’ invece in virtù del “destino geografico”, ricordato in apertura, che la Turchia dovrebbe cercare di valorizzare la propria funzione di elemento di cerniera ed armonizzazione delle aree di cui è crocevia. Una posizione sicuramente difficile da tenere, in una fase di alta tensione fra blocchi contrapposti come quella attuale, e tuttavia è questa la posizione che probabilmente con più generosità potrebbe ripagare la Turchia e l’intera area, se Ankara consolidasse un atteggiamento di incontro, più che di scontro di civiltà.

Da ultimo, ed in conclusione, vorrei accennare alla situazione del nostro stesso paese nell’area. L’afferenza dell’Italia al blocco occidentale ed euro-atlantico porta spesso a farci dimenticare la nostra realtà geografica di penisola distesa sul Mediterraneo. Possiamo sentirci europei, ma – piaccia o meno – non possiamo dimenticare di essere anche mediterranei, pena la condanna di subire passivamente, come effettivamente è avvenuto e sta avvenendo a causa delle rivolte arabe, i contraccolpi più duri di simili fenomeni di destabilizzazione. Per il nostro paese, proprio il rafforzamento dell’integrazione e della cooperazione con la realtà turca può rappresentare una leva fondamentale, per cominciare a ritagliare crescenti margini di autonomia in quest’area. Essa infatti ne rappresenta il naturale spazio di riferimento secondo una prospettiva geopolitica, anche se purtroppo la zona mediterranea e vicinorientale continuano a costituire oggetto soltanto di iniziative sporadiche ed estemporanee. Non invece di una visione strategica e di ampio respiro, come sarebbe necessario.


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