Ambizione nemmeno troppo nascosta del Primo Ministro turco Recep Tayyip Erdoğan è quella di rimanere al potere fino al 2023, anno del centenario della Repubblica; per poterlo fare però è necessario attuare una serie di revisioni costituzionali che portino ad una trasformazione del sistema politico turco facendolo diventare da parlamentare a presidenziale. Se dovessero concretizzarsi, i progetti di Erdoğan gli consentirebbero di candidarsi alla carica di Presidente nel 2015, aprendo così un nuovo ciclo politico che potrebbe vederlo al potere, in maniera del tutto legale, per i prossimi tredici anni. Per questo motivo le ultime mosse politiche del Primo Ministro sono tutte volte a cercare consensi politici e popolari verso una riforma da cui l’opposizione continua a diffidare ben sapendo che favorirebbe l’incontrastata leadership del “nuovo Sultano”.
Le recenti scelte di politica interna del governo AKP guidato dal Primo Ministro Recep Tayyip Erdoğan sono indirizzate alla realizzazione di quella che a tutti gli effetti potrebbe rappresentare una delle svolte più significative nella politica turca degli ultimi trent’anni, dall’ultimo colpo di Stato datato 1980: la riforma costituzionale che dovrebbe portare l’attuale sistema di governo parlamentare ad un sistema presidenziale ad elezione diretta. A questo scopo lavora Erdoğan, che da mesi cerca di trovare il più vasto consenso nazionale possibile intorno al progetto di riforma; in quest’ottica si devono interpretare le molte e inaspettate aperture nei confronti sia dei partiti d’opposizione sia della minoranza curda con cui l’AKP sta cercando di consolidare i rapporti. Il progetto costituzionale elaborato e promosso dal partito islamico moderato AKP, al governo da quasi dieci anni, ha in questi mesi acquisito consensi sempre maggiori da parte della popolazione che nutre grande considerazione e fiducia in un establishment di potere in grado di rilanciare la Turchia sia in ambito di politica estera che, elemento di importanza maggiore, nell’ambito economico.
Il governo di Erdoğan, dal momento della propria ascesa (2003), ha concentrato molte delle proprie energie nel controllo dei tentativi di intromissione dell’esercito, il cui ruolo di garante dei valori kemalisti e della laicità dello Stato è riconosciuto a partire dal 1961 attraverso l’istituzione del Consiglio di Sicurezza Nazionale, e che più volte nella storia della Repubblica è intervenuto in maniera più o meno violenta – l’ultimo tentativo risale al febbraio del 2007 (c.d. comunicato di mezzanotte) – per cercare di condizionare e indirizzare le scelte di governo. Negli ultimi anni la crescita economica del Paese ha portato ad una graduale e generale disaffezione popolare nei confronti dello stesso mito kemalista, attribuendo invece un ampio credito al governo dell’AKP che ha potuto intraprendere con meno esitazione politiche volte ad una generale riabilitazione dell’Islam nella vita pubblica, aspetto questo impensabile fino a dieci anni fa. L’AKP ha saputo porre fine ad un’egemonia che durava da oltre ottant’anni, in cui a governare erano deboli coalizioni di governo costantemente minacciate dai voleri dell’esercito.
Ora l’AKP si trova però di fronte ad un bivio; alle prossime elezioni parlamentari del 2015 ben 73 membri storici del partito, tra cui Erdoğan e il vice Primo Ministro Bulent Arinc, non saranno più eleggibili, in quanto la costituzione turca (è ancora vigente quella introdotta dai militari nel 1982 con alcune modifiche) prevede un massimo di tre mandati parlamentari. Questo significa che alle prossime elezioni l’AKP si troverebbe di fronte ad un delicatissimo ricambio generazionale, scenario questo che porterebbe ad un vero e proprio terremoto politico rischiando di minare non solo il coordinamento e gli equilibri interni all’attuale partito di governo, ma la stabilità politica del Paese stesso minandone l’inarrestabile crescita economica.
Il progetto di revisione costituzionale
L’unico modo per evitare una tale eventualità è attraverso una serie di revisioni costituzionali che da una parte trasformino l’attuale sistema parlamentare, in cui il ruolo di Presidente della Repubblica ha più che altro una funzione cerimoniale, in una sorta di semipresidenzialismo allo francese con elezione diretta e con l’attribuzione di ampi poteri al Capo dello Stato; dall’altra consenta ai parlamentari di venire rieletti per un ulteriore mandato. In concreto la bozza di legge elaborata da una commissione dell’AKP prevede l’elezione popolare diretta del Presidente la cui durata del mandato passerebbe da sette a cinque anni e per un massimo di due mandati; prima invece non era rinnovabile. Se la riforma costituzionale dovesse passare, Erdoğan con tutta probabilità si candiderebbe alla Presidenza della Repubblica nel 2015 e, in caso di vittoria di entrambi i mandati (il secondo nel 2020), l’attuale Primo Ministro rimarrebbe al potere fino al 2025, riuscendo così a detenere il controllo in maniera del tutto legale per ben 22 anni. L’obiettivo di Erdoğan è quello di essere a capo della Turchia nel 2023, anno in cui verrà festeggiato il centenario della Repubblica.
Uno scenario ad oggi per nulla improbabile anche se, secondo la costituzione turca, per approvare una revisione costituzionale è necessario ottenere una maggioranza di due terzi alla votazione parlamentare; unica alternativa prevista dalla costituzione è rappresentata dalla possibilità di promuovere un referendum nazionale sulla questione. Affrontare la questione per via referendaria molto probabilmente vedrebbe la vittoria dei “sì” alla proposta di riforma costituzionale, una vittoria non tanto dettata da una reale convinzione della società turca sulla necessità di cambiare sistema, quanto piuttosto dall’alto gradimento e l’ampia popolarità di cui continua a godere l’AKP ed in particolare Erdoğan. Già in passato l’AKP ha usufruito del referendum popolare per approvare progetti di riforma costituzionale; in particolare dopo la storica elezione alla presidenza di Abdullah Gül, primo Presidente islamico della Repubblica, il governo ha promosso nel 2010 un importante referendum costituzionale in cui furono votate le modifiche di 26 articoli (su 177 totali) della costituzione, approvate prima in Parlamento ma non ratificate per assenza di una maggioranza dei due terzi. Tuttavia per permettere al Presidente di indire un referendum popolare su una legge di revisione costituzionale occorre che in Parlamento venga superata la soglia dei 330 voti: al momento la maggioranza di governo gode di 327 seggi all’interno del Parlamento.
Al momento l’establishment di potere dell’AKP sembra aver optato per la prima ipotesi, ovvero riuscire a far passare la proposta di revisione all’interno del Parlamento. L’attivismo di Erdoğan e dei suoi ministri negli ultimi mesi è stato volto a ricucire i rapporti con alcuni gruppi di opposizione nel tentativo di riuscire ad ottenere i 39 voti utili a raggiungere la quota di 366 voti necessari alla modifica della costituzione; la volontà del governo è quella di far passare l’eventuale riforma come un progetto intorno al quale vi sia un vero consenso nazionale1. All’interno del Parlamento vi sono principalmente tre partiti d’opposizione: il primo partito d’opposizione è il “Partito Popolare Repubblicano” (CHP), partito socialdemocratico espressione dell’anima laica del Paese che detiene 135 seggi; il secondo è il “Partito del Movimento Nazionalista” (MHP), che alle ultime elezioni approfittando dello scontro tra laici e islamici ha ottenuto 52 seggi; e infine il partito pro-curdo “Partito della Pace e la Democrazia” (BDP) che detiene 35 seggi. Al momento tutte e tre le compagini d’opposizione sembrano trovare un comune accordo contro il progetto di riforma costituzionale promossa dall’AKP, ben consapevoli che il cambio di leadership all’interno del partito di governo potrebbe indebolirlo; al tempo stesso nutrono il timore che un sistema presidenziale possa aprire ad un ulteriore fase di potere di dieci anni di Erdoğan.
I corteggiamenti di Erdoğan ai partiti di opposizione
Tuttavia da diverse settimane il Primo Ministro Erdoğan in persona ha iniziato un fitto corteggiamento nei confronti dei partiti d’opposizione, facendo anche diverse concessioni su temi cari e delicati quali la questione curda. Durante la prima settimana di giugno si è infatti tenuto un incontro con il leader del principale partito d’opposizione (CHP), Kemal Kilicdaroglu, con la volontà di istituire una commissione congiunta che affronti la questione curda, una commissione a cui hanno declinato l’invito i membri del partito nazionalista (MHP), da sempre fermamente contrari al riconoscimento dei diritti delle minoranze presenti nel Paese. Kilicdaroglu, politico di origine curda e fede alevita, un’eccezionalità nel panorama politico turco, è stato da poco confermato alla guida del partito ed è ben consapevole delle mire di Erdoğan; per questo motivo mantiene la sua ferma opposizione nei confronti dei progetti di revisione costituzionale. Al tempo stesso però si è detto favorevole a cercare di creare un dialogo costruttivo con il governo su questione cruciali, quale appunto quella curda dando timidi segnali di apertura. Erdoğan da parte sua ha la ferma convinzione che qualsiasi futuro tentativo di soluzione del conflitto con i curdi debba necessariamente passare attraverso un serio e credibile accordo con la propria opposizione politica. Sembra difficile però immaginare cosa realmente Erdoğan possa offrire al CHP per convincerlo ad appoggiare il progetto di revisione costituzionale.
Il secondo e forse più importante gesto di conciliazione da parte del governo di Erdoğan è stata la decisione di abolire definitivamente i tribunali speciali, titolari dei maxiprocessi sui presunti colpi di Stato e sui gruppi terroristici2. Istituiti nel 2005 e dotati di poteri speciali previsti dal Codice Penale per combattere il “crimine organizzato”, in questi anni hanno colpito soprattutto militanti curdi e militari dei più diversi ranghi dell’esercito turco accusati di complottare per rovesciare il governo Erdoğan. Famoso fu nel 2007 l’esplodere dello scandalo “Ergenekon”3, una struttura clandestina tesa a rovesciare il governo e a destabilizzare il Paese per poter successivamente giustificare un nuovo intervento da parte dell’esercito. L’abolizione dei tribunali può rappresentare una prima importante azione volta a stemperare il rapporto tradizionalmente teso con i militari e, al tempo stesso, riacquisire la fiducia da parte delle popolazioni curde.
Nelle ultime settimane la fitta agenda di incontri di Erdoğan ha visto all’ordine del giorno anche quello con il leader del partito conservatore “Partito della Voce del Popolo” (HSP), Numan Kurtulmuş. Il partito HSP è stato fondato da Kurtulmuş nell’ottobre del 2010 da ciò che rimaneva del “Partito della Virtù” (Fazilet), legittimo erede della tradizione del “Milli gorüş”, nato a seguito del così detto “Colpo di Stato postmoderno” che nel febbraio del 1997 pose fine al governo guidato dal Refah di Necmettin Erbakan. Erdoğan stesso così come Gül ed altri esponenti di spicco dell’attuale partito di governo erano membri del Partito della Virtù prima di una profonda frattura sulla linea politica del partito che portò, nel luglio del 2001, all’allontanamento dell’ala riformista definita degli “innovatori” (yenilikciler) perché favorevoli ad una linea politica islamica progressista. Quegli stessi membri espulsi dal partito decisero di formare poche settimane dopo l’AKP. La proposta formulata da Erdoğan a Kurtulmuş durante il loro incontro è stata di una fusione del HSP con l’AKP; così facendo il Primo Ministro è convinto di riuscire ad assicurarsi anche le preferenze di quell’elettorato iperconservatore, la cui percentuale è minima (0,7%), andando ad occupare quello spazio politico più a destra dell’AKP stesso.
Dietro la strategia di Erdoğan però vi sono anche questioni interne allo stesso partito di governo, in quanto è previsto per il prossimo 30 settembre ad Ankara il congresso nazionale dove presumibilmente Erdoğan otterrà il suo quarto mandato alla guida del partito e in cui è atteso l’annuncio di un consistente rimpasto di governo, che potrebbe vedere affidato un ministero proprio a Kurtulmuş in attesa di lanciarne la definitiva candidatura a Primo Ministro nel 2014, con Erdoğan invece pronto alla presidenza della Repubblica.
Conclusione
Alcuni analisti negli scorsi mesi avevano pronosticato una futura staffetta tra Erdoğan e Gül (il cui mandato scade a fine 2014) sul modello russo di Putin-Medvedev4; tuttavia ora sembra farsi largo l’ipotesi che Erdoğan decida di puntare su Kurtulmuş come futuro Primo Ministro, riscendo così da una parte a disinnescare il pericolo dettato dal ricambio generazionale interno al partito e dall’altra a consolidare ulteriormente la propria autorità sia all’interno del AKP che del Paese. Al momento lo scenario più probabile è che il potere rimanga saldamente nelle mani di Erdoğan per i prossimi tredici anni, garantendo così un lungo periodo di stabilità politica che, se sarà ancora accompagnato da crescita economica e benessere, farà definitivamente della Turchia un Paese in grado di ricoprire il ruolo di attore internazionale determinante per i futuri assetti mediorientali.