(articolo pubblicato sul numero di luglio di Develop.med news dell’Istituto Paralleli)
Le forze politiche turche sono unanimemente d’accordo: c’è bisogno di una nuova costituzione, quella nata nel 1982 dal golpe militare di due anni prima è incompatibile con un sistema democratico e benché più volte emendata non potrà mai offrire ai cittadini diritti e libertà in linea con gli standard europei. Il primo ministro Recep Tayyip Erdoğan, leader del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp, il partito conservatore d’ispirazione islamica al potere dal 2002) trionfatore delle elezioni del 12 giugno col 50% dei voti e la maggioranza più che assoluta dei seggi, l’ha posta come punto principale e qualificante del suo terzo mandato: e ha promesso che verrà scritta in modo condiviso, coinvolgendo le opposizioni parlamentari, i partiti minori che non hanno conseguito deputati, la società civile, il mondo accademico e dell’informazione – una costituzione che nascerà dalla sintesi di una pluralità di voci anche contrastanti.
Il Tesev (Fondazione turca per gli studi economici e sociali), think tank dall’alto profilo e dal pungente dinamismo nato nel 1994, ha colto l’apertura del premier al balzo. Nel corso di una conferenza di due giorni a Istanbul, il 24-25 giugno, ha presentato e discusso una serie di rapporti di ricerca con suggerimenti – girati ai parlamentari e ai partiti – per affrontare alcuni dei nodi più spinosi che la nuova costituzione dovrà sciogliere. Questi rapporti di ricerca, come ci ha spiegato la coordinatrice esecutiva Ayşe Üstünel Yırcalı, sono il frutto del lavoro di docenti e intellettuali che lavorano su tre filoni: la politica estera, la democratizzazione e il buon governo; il Tesev non ha affiliazioni politiche, è stato fondato da circa 300 tra professori, giornalisti, industriali e uomini d’affari, ex diplomatici, sindacalisti con visioni del mondo altamente diversificate: ma l’obiettivo è comune, “costruire un contesto socio-politico più democratico”.
“La Turchia in transizione: società, politica, magistratura, media”, questo il titolo dato alla conferenza, è partita dall’ormai scontata constatazione che l’attuale costituzione d’impronta autoritaria trasforma i cambiamenti travolgenti in atto nel Paese (economici, sociali, culturali, politici) in problemi cronici e in occasioni d’incessante scontro: e che un nuovo documento fondativo è necessario per “ristrutturare lo stato, rafforzare la separazione dei poteri, regolare i rapporti tra stato e cittadini alla luce dei principi democratici, garantire libertà e diritti individuali”; mentre le priorità sono state individuate nel “trovare una soluzione politica al problema curdo, rifondare i rapporti religione-stato-società sulla base del secolarismo, creare media indipendenti e non di parte, eliminare le restrizioni alla libertà di stampa, processare tutte le forze di sicurezza che hanno in passato compiuto crimini in nome dello stato”.
Le presentazioni sono state vivaci, le discussioni animate: e le proposte ben calibrate e innovative, a volte per graduali riforme e a volte per completi ripensamenti. Come nel caso del report scritto e presentato dal noto giornalista Cengiz Çandar, “Giù dalla montagna. Il Pkk può essere disarmato? La questione curda liberata dalla violenza” (pubblicato in turco, con la versione inglese a seguire): che ha parlato con circa 40 tra uomini politici turchi (presidente e alcuni ministri compresi), leader del Pkk, ex membri dell’organizzazione, esperti vari; che ha evidenziato l’impossibilità di una soluzione militare; cha ha suscitato scalpore e qualche critica sulla stampa per aver parlato del Pkk non come un gruppo terroristico, ma come parte – quella armata e brutale – dell’insorgenza o insurrezione curda; che ha proposto di bloccare i processi contro i politici curdi accusati di collaborazionismo e di migliorare le condizioni carcerarie di Apo Öcalan, a cui concedere gli arresti domiciliari; che ha spiegato che “se non si tiene presente l’autorità incontestata di Öcalan nel Pkk e se non si disarma [pacificamente, attraverso un'amnistia] il Pkk, è impossibile risolvere il problema curdo”; che ha proposto una road map in sette tappe, tra le quali figurano l’abbassamento della soglia di sbarramento del 10% nelle elezioni politiche che limita la rappresentatività dei curdi, una nuova definizione della cittadinanza (civica e non più etnica), il diritto all’istruzione nella lingua madre: tutto da inserire nella nuova costituzione.
Negli altri panel della conferenza si è discusso, sempre in relazione al problema curdo, degli abusi commessi in passato dalle autorità politiche e militari in virtù della legge marziale e della necessità di punirli, indennizzando le vittime che chiedono verità e giustizia; delle misure da prendere per riformare in modo virtuoso la magistratura, concentrandosi sugli ostacoli che i cittadini trovano nell’interazione col sistema giudiziario (assistenza legale, accesso agli atti, uso della lingua madre) e sui diritti limitati della difesa (il “giusto processo”); delle discriminazioni subite dai cittadini turchi di origine armena e delle norme necessarie ad eliminarle completamente, offrendo anche alle altre minoranze (a quelle così definite dal trattato di Losanna del 1923) la piena uguaglianza di fronte alla legge e incentivi per preservare la propria specificità culturale; dell’abolizione auspicata del divieto a indossare il foulard islamico in alcuni spazi pubblici, che comporta forti penalizzazioni in ambito lavorativo ed educativo; delle misure da adottare per rendere il sistema mediatico effettivamente libero da restrizioni legali e da pressioni delle forze politiche ed economiche.
Suggerimenti preziosi, frutto di ricerche minuziose e di riflessioni ben temperate. Ma le istituzioni e i partiti non hanno ancora avuto modo di rispondere: subito dopo le elezioni, infatti, la Turchia ha vissuto una paralizzante crisi parlamentare che ha assorbito tutte le attenzioni politiche e mediatiche: perché l’opposizione kemalista del Chp e il Bdp curdo hanno deciso di boicottare i lavori dell’aula rifiutandosi di prestare giuramento, come forma estrema di protesta contro il mancato rilascio – da parte della magistratura – di alcuni neoeletti deputati preventivamente in prigione perché accusati di eversione (in quanto presunti membri dell’organizzazione golpista Ergenekon) o di attività in favore del Pkk. Il partito repubblicano del popolo è tornato sui suoi passi dopo due settimane, grazie alla mediazione dello speaker della Grande assemblea Cemil Çiçek; il Partito della pace della democrazia ancora no, anche se ha mostrato disponibilità al compromesso.
Giovedì 14 luglio la situazione è però precipitata: uno scontro a fuoco tra l’esercito e la Pkk ha fatto 13 vittime tra i soldati – in in realtà morti per un incendio, le parti si rimpallano la responsabilità sulla causa – e altre tra i guerriglieri; un’assemblea di organizzazioni non governative curde, a Diyarbakır, ha proclamato l’autonomia democratica: non l’indipendenza, ma una forma di autogoverno piuttosto marcata. La risposta di Ankara non si è fatta attendere: ennesimo intervento militare, condanna congiunta da parte dei partiti rappresentati in Parlamento dell’azione terroristica, durissima presa di posizione del premier che ritiene inaccettabile la dichiarazione unilaterale sull’autonomia curda del Congresso per la società democratica (Dtk). Gli scontri armati e la fuga in avanti del Dtk sono destabilizzanti per la serenità necessaria a rendere proficui i negoziati: che riprenderanno sicuramente alla riapertura del parlamento, ad ottobre, e che trarrebbero beneficio da un’accurata discussione delle proposte del Tesev. Nel frattempo, l’agenzia di stampa curda Fırat, nel mese di luglio, ha fatto filtrare la notizia – mai smentita – di accordo tra lo stato turco e Öcalan, detenuto sull’isola di İmralı, per istituire un Consiglio di pace congiunto: sarebbe un passo potenzialmente decisivo, nella direzione indicata da Cengiz Çandar.