Pare di sentirlo il Belsito che comunica al consulente del cerchio magico: Perché er servaggio, lui, core mio bello, Nun ci ha quatrini; e manco je dispiace: Ché lì er commercio è come un girarello, Capischi si comè? Fatte capace: Io sò ‘n servaggio, e me serve un cappello: Io ci ho ‘n abito e so che a te te piace, Io te dò questo, adesso damme quello, Sbarattamo la roba e semo pace.
Così i furbetti del Po pensavano di aver fatto il colpo grosso, andare dai “servaggi” in Tanzania, investire in una banca locale quei 4,5 milioni di euro e barattarli con pingui interessi in cambio della gratitudine di essere stati scelti dai semidei, figli di Odino e non solo.
Invece secondo i primi accertamenti degli inquirenti milanesi l’istituto di credito probabilmente per una questione di trasparenza bancaria ha «congelato» i fondi per oltre un mese e poi li ha restituiti al mittente, cioè li ha rimandati sul conto del Carroccio presso la banca Aletti, dando una lezione di trasparenza, correttezza e civiltà a un tempo ai neo barbari e alle banche italiane, molto meno schizzinose.
Le disinvolte fortune della banda Bossi cominciano nel 1989, quando alle europee eleggono due eurodeputati raccogliendo un miliardo di rimborsi direttamente da Roma ladrona. Un anno dopo, le regionali portano nella casse del movimento, che all’uopo diventa partito, 1.729.000.000 di lire. Due anni ci approdano nella capitale corrotta e grazie a 80 seggi fanno un buon raccolto: 2,7 miliardi di rimborso pubblico. Con quelli il Balocchi, poi sostituito dal Belsito, acquisisce la spartana sede di Via Bellerio, una ex fabbrichetta che diventa il quartier generale della Lega, quando ancora si andava costruendo la narrazione leggendaria di un movimento duro e puro, francescano nei costumi e rude nel rifiuto di mollezze da basso impero. All’immagine di un partito separato dalla cattiva politica di Tangentopoli si addice la battaglia contro il finanziamento pubblico che stanno appunto conducendo “in pubblico”, mentre in privato la Lega copn i quattrini dei rimborsi e non solo si compra una palazzina da 14 miliardi.
Era cominciata l’età dell’oro per i padani e anche l’omonima febbre di accumulazione: gli anni 90 oltre a recare pingui bottini si contributi elettorali nelle casse, sono segnati da un instancabile dinamismo, che suscita l’invidia di partiti di tradizione, ma meno “radicati” territorialmente, come si diceva a quel tempo. Sono gli anni della telefonia e dei “recapiti” padani, oltre che di donazioni private con contorni di strizzate d’occhio di imprenditori e manager incantati dallo spirito di iniziativa della Lega.
La boa di fine secolo segna un momento di stasi. Ma provvede il socio di maggioranza a ripianare i debiti. Il 2000 è l’anno della fideiussione di 2 miliardi di Forza Italia, che magnanimamente per mano del suo tesoriere si fa garante di un fido da concedere al movimento di Bossi, utilizzabile, così recita un documento su pregiata carta intestata indirizzato alla Banca di Roma, per scopi istituzionali e per le esigenze del movimento. Che oggi oltre che smemorato si rivela anche ingrato, se addirittura lo stesso documento recita: “siete autorizzati a addebitare sul nostro conto gli importi che vi fossero dovuti dalla stessa “società” e senza previamente interpellarci”.
Seguono anni neri, i business della Lega ancorché fantasiosi non hanno successo, dalle cooperative leghiste alla Credieuronord, presa per i capelli da Fiorani. E non hanno più successo le varie società finanziarie, di trading, agenzie di viaggi, concessionarie di pubblicità, finanziarie, cui potremmo assommare il valore aggiunto culturale, da Miss Padania, alla Bicicletta Padana, ai festivale della canzone, che in fondo anche la scuola sperimentale della Signora Bossi prende il nome da un complesso folk.
Ma se l’iniziativa privata non produce, quella “pubblica” invece va a gonfie vele tanto che Paglierini, il ministro delle finanze esplicito della Lega (altri lo furono senza dichiararsi apertamente) scrive in una lettera a Bossi: ma cosa ce ne facciamo di tutti quei soldi? Riferendosi agli introiti di fonte pubblica: quelli opachi, non dichiarati, illegali non li conteggiamo per carità, per non deludere opinionisti bi partisan e anche perché li possiamo immaginare vista la pesante pressione malavitosa nei comuni del Nord, ma ci mancano efficaci pezze d’appoggio. Anche se il vero business padano dichiaratamente viene da un ladrone a loro dire, anzi da una ladrona, se in finanziamenti pubblici la Lega dal 1989 al 2010 ha ramazzato 168.561.690 euro.
Avremmo dovuto imparare dignità e volontà di democrazia dalla primavera araba. Dovremmo apprendere correttezza e trasparenza dalla Tanzania. Con certi selvaggi in casa la nostra civiltà ne ha di strada da fare.
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