"Tutto quanto basta" del Collettivo Krommyon Bliton...fino a che nulla basti. Primo dei racconti segnalati al concorso di Villa Petriolo 2010

Da Silviamaestrelli

_Foto di Gloria Giampiccolo_
Tra le menzioni di merito assegnate ai racconti del concorso letterario 2010 di Villa Petriolo “La gaia mensa” compare la segnalazione di "Tutto quanto basta" del Collettivo Krommyon Bliton.

Il Collettivo Krommyon Bliton è un gruppo di cinque amici (Serena Cambareri, Alessio Cannarozzo, Nicolò Guidotti, Alberto Franzin e Luca Frascarolo) riunitosi temporaneamente in tale forma con lo scopo di descrivere un convivio essendo un convivio, di raccontare gli spazi fra le parole e i profumi e i volteggi del gusto, sbrigliando gli attimi fra sensazione e condivisione, fra visione e sensazione resa pura nel giocare condiviso.

Da "A GRANGOLA!", cerimonia di premiazione del concorso letterario di Villa Petriolo 2010 La gaia mensa



Questa la motivazione redatta dal Presidente di giuria, il critico cinematografico Enrico Ghezzi:
“Tutto quanto basta. Non basta mai, invece, e il testo magnifico si ingozza della propria lingua, salmistrandosi in più modi fino a farsi giocare e bambinescamente sfigurare, perdendosi q.b. fino a far risuscitare il morto. La ricetta: tutto quanto basta fino a che nulla basti”.

Primo racconto segnalato
“TUTTO QUANTO BASTA” del Collettivo Krommyon Bliton

“La medicina antica non potendo curare i malati
si accontentava di resuscitare i morti .”

Jean Charles
L'incontro avveniva dopo anni e anni per una triste evenienza: il corpo del nostro giovane amico disteso esanime sul letto della stanza accanto; ci ritrovammo in quella casa sconosciuta, adunati da biglietti ingialliti del giallo d'una porta che scricchiola senza che mano la spinga. Erano le sue ultime volontà: cinque sapori per sei commensali: resuscitare un'amicizia comune mai realmente morta ricreando il condensarsi nell'ebollizione di gocce o la parabola del coperchio alzato, il disegno previsto - il prevederne il sentore sul capo chinato, il movimento delle tinte nella cottura e il frangersi di legami, e le nuvole artificiali di spume e arie che smagliavano lente il sapore. Tutto questo per un desiderio inesaudibile ai suoi sensi: per messinscena e realtà: per essere vivo pur se morto.
Ognuno una ricetta, amoreggiamenti d'ingredienti a descrivere ciò che s'era stati per il defunto; e così il sapore scuro e vivo del cervo fra l'arancione della zucca in gnocchi di gel, il bianco del pollo e del formaggio fra senape di Dijon e rosso piccantino di cipolle, rombo in salsa di pinoli e barolo, uova strapazzate e crostini alle noci, e il bollito nel suo brodo, nel profumo color dell'onice.
Nella trasparenza della stanza c'era la linea della casa, dell'albero sul corso o dell'oro del pane. E strali di recinti sotto i voli della carta scritta di ricette – o ricordi, per meglio dire – tanto conosciute da lasciarle quasi al caso, libere nella reggia bruna che le raccoglieva. E vociavano poi riflessi paglierini, latte, e curvando salsedine marina; e la densità quasi d'un acrilico sul vetro, e quindi il ritorno al bianco, incredibile - una freccia che tornava all'arco. Si parlava di Nizza, dei suoi violetti, di zucchero tra lenzuola e di blu simile a vene; e di camicie e pioggia sulla pietra, di appoggi severi eppure come asmatici.
Voltolavano le viste, l'impasto e il brodo, simili come due riflessi d'una mano, il disegno abbozzato con la biro, quasi fumettistico se non Van Gogh: i colori materia di studio, i contorni come voci della materia. Si sarebbe detta una firma, quel disegno di vortici...
Sbattere le uova era architettura, quasi cinema. Come a seguire il corso del fiume, verso vecchi compagni di scuola, collegamenti involontari, nascosti da uno scherzo. Il giallo e il bianco, e le sfumature del mezzo, il ritornare alla luminescenza di alcuni paesaggi infantili, a giochi con spade di plastica macchiate di rosso, cercando per gioco la nazionalità d'una risata, le scarpe con cui la voce correva sul silenzio d'altre stanze.
Il blu e il viola, quasi il colore delle melanzane, e l'argento d'un anello, o di un viale di marmo – la consistenza immaginata di quel marmo –, gli aromi, come un fiume che dipanava accordi maggiori: sensazioni messe all'asta, comuni, nel riflesso velato nell'occhio d'un coniglio fra il fumo che calmo lasciava una scia. Il colore del cervo era odore di legno fra una penombra ebbra di mongolfiere strapiene a formare una volta, come a contenere il tempo delle lancette, come rotelle, e il rombo di ciò che passava senza scelta. Il sole aveva il suo trono sulle colline, grugnendo luce quasi umida: le tende rosse nella stanza, labbra in movimento languido, profonde e imperscrutabili alla sola vista, come sangue, come il movimento sotterraneo del petrolio e dei granelli più sopra. Sul tavolo più vicino pareva frusciare la boccetta del pepe, e v'erano riflessi i seni delle ragazze, il delta di cielo fra le salite percorse ogni mattina, un tempo, e poi il ricordo di scoiattoli intravisti troppo spesso per sorprendere. Campi di fragole, fori d'inchiostro fra le lettere: un pittore che amava le crepe degli intonaci, le gole, lo scendere dei sapori che si fanno energia scura e ammaliante di mistero; il calcolo d'una chimica quasi eroica, un terno di nuvole a coprire la testa del cielo.
Quando ogni portata ebbe preso forma, d'un tratto sentimmo il suono della serratura, il giro che non avremmo dovuto riascoltare sino alla mattina seguente: entrò una donna con in braccio un bambino; nessuno di noi la conosceva. Era la sua compagna, il suo ultimo amore, così ci disse, mentre con sguardo calmo lasciò che il bambino cominciasse a correre con amabile inconsapevolezza tra le stanze aperte. Ognuno di noi la abbracciò, e il suo abbraccio aveva il profumo della notte. Ma ecco che mentre dai suoi occhi cominciavano a scendere lacrime, avvertimmo un trambusto ridente provenire dalla sala da pranzo. Il bambino stava nel mezzo tinto d'ogni nostro ingrediente, fra chiazze di passato e presente: aveva distrutto ciò che noi volevamo consegnare al tempo: tutto s'era riunito in varie proporzioni in un'unica indefinibile portata colorata d'ogni colore. Fra il silenzio, decidemmo d'assaggiare quel caos. Ed ecco che s'incendiò una risata d'estasi: sottratti delle vesti, i nostri paesaggi, d'ognuno, luccicavano in modo diverso e ondoso, a somigliare alla vita, all'arabesco d'un gustare nuovo e di nuovo antico, al rococò che ancora si ridisegna al solo ricordo. I sensi brindavano a un sentimento allineato nell'incavo del tempo - nell'onda d'una schiena flessa -: candeggiavano il foglio del Bianco estremo alla trincea di là dalla vista, al contempo. Bach si discioglieva: le lane dell'olfatto s'annodavano in gomitolo trasparente e ventoso più del vento: si faceva sale d'ogni separarsi, ché la sera scavalcava il giorno e il giorno la sera, di fuori. Era l'incandescenza della prima occhiata, sfumante - il ritagliare gli arti alle ombre da più parti slanciate.
E lui strappò il tempo: rinacque svegliato dalle nostre risate, dalle mani del bambino. Si sollevò dal letto, stiracchiandosi ricongiungendo gli arti al flusso di vita, fra le nostre risate e le nostre vertigini.
Come lumache, le lacrime di gioia erano lente fra le rughe, i calici ripetevano quasi il rodeo delle stelle, numerando il percorso d'un sapore provato sino in fondo. L'allegria comune camminava come un granchio e aveva le forme svelte e morbide d'un coniglio, e il cappello di profumi sotto il quale brindavamo era delizia di blu tondo e sensuale di alcuni stralci di quel nuovo gustare, in un lampo come in un viale tra case tranquille di pianura un vento da paese delle meraviglie. I primari tintinnii delle dita sulle strutture triangolari dei sorrisi ebbri, come incollati sul Sempre, ricreavano col movimento quasi il sapore della frutta. Era come vivere in un embolo d'erba cangiante nel colore.
Le finestrone erano varchi per un corpo di cristo reale, energia e polvere di luci e chiome. Lo sterno della sera non ne nascondeva il battere, e su d'una tovaglia rossa ancora si mostravano tracce di Treviso accanto, accorciando la Geografia, a gocce di genepì, a sali e spezie e a fiori indiani. Si potevano forse leccare le onde radio trasmesse dalle posate nell'immaginazione. Moscerini color ferro straziavano acuminati e splendidi la dolcezza delle amarene, come somma di anarchie. I riflessi di certe cipolle come fischietti azzurri, tubi tarlati in una lingua di caucciù. Il retrogusto era la reazione a un testamento dove si insediava il germe del genio e poi uno stadio ulteriore di riscaldamento portato da rumore bianco, e scendeva come sulla linea di un'anfora morbida come vagina. Dal cortile gli alberi salivano, righelli infiniti verso il cielo a misurare il suono del respiro della terra, del succo d'uva sulle ginocchia e dentro botti clandestine, di folle di fiori gialli incrociati all'erba serale. Le ali di vapore erano stereofonia, rimedio a tre scherzosi satanassi che leggevano l'anima in musica negra d'amore. Tutto s'iniettava spore, poi la salvezza, il tuono, dottrina di poli estremi allo specchio. La crema della tappezzeria color avorio, una sezione di spazio sferico. Il pavimento salutava la struttura divina del cavolo verde con un bacio, costruendo infinito uno strappo, un vivere.

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