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Twitter serve a fare soldi, però la parola salva

Da Marcofre

Da qualche tempo le reti sociali sono al centro di un dibattito sulla loro utilità. Ha dato fuoco alle polveri Jonathan Franzen, e di recente si è parlato ancora della minaccia che Twitter rappresenterebbe per la letteratura. Si tratta di un dibattito che nasce sempre quando siamo alla vigilia di un cambiamento se non epocale, almeno gravido di novità. Ho scritto “vigilia”, ma in realtà ci siamo già dentro sino al collo.

Esiste poi un’altra scuola di pensiero che attacca i network sociali perché con questi si finisce sempre col parlare con i propri simili, ai propri simili.

Provo a riflettere su quest’ultima affermazione, per poi passare alla prima.

Domanda: ma i salotti letterati del Settecento, dell’Ottocento, da chi erano composti? Da una manciata di simili. Nessun bifolco si sarebbe mai sognato di entrarci per dire la sua: perché non aveva niente da dire, purtroppo.

Perché probabilmente avrebbe preso delle legnate dai servi del signore, mentre nelle luminose stanze dell’intellettuale si discuteva su come alleviare le sofferenze dei poveri.

Questi ambienti raccoglievano critiche feroci, non tali da impedire a Diderot o al Manzoni di prendervi parte. Non furono solo un ambiente dove mostrarsi e fare delle chiacchiere, ma spesso si dimostrarono una fucina di idee nuove, che in seguito avrebbero migliorato l’esistenza anche di quanti in quei salotti non c’erano mai entrati. Come spesso succede, per giudicare è necessario osservare se da un fenomeno viene qualcosa di buono, e impedire alla superficialità di avere la prima e l’ultima parola.

Twitter e compagnia bella rappresentano una minaccia per la letteratura?

L’obiettivo di questi network sociali è produrre denaro (Facebook a questo proposito sembra avere qualche problema), e se per caso è possibile farci dell’altro, ben venga. Ma ficchiamoci in testa che i fondatori di tali servizi desiderano arricchirsi. Messo al centro questo concetto, brutto, sporco e cattivo ma anche reale, possiamo affrontare il resto.

La risposta a una simile questione non può essere univoca. A me pare che sia ben più minaccioso avere sette italiani su dieci che non capiscono la lingua. Costoro andranno a votare, purtroppo; altro che Twitter.

Però la critica si muoveva da una considerazione: queste reti sociali non permettono di articolare, argomentare il proprio pensiero. Quindi si viene attaccati con facilità perché fretta e superficialità la fanno da padroni. E la scelta è tacere, vale a dire autocensurarsi, piuttosto che trovarsi invischiati in attacchi personali e cose del genere.

Se esiste al mondo un mestiere che si presta alla grande a essere attaccato, è quello dello scrittore. Amicizie interessate, attacchi di un autore contro altri autori, invidie, gelosie da asilo nido, senza poi contare tutto il “circo” di piccole e grandi connivenze tra critici e scrittori, e tra i primi e gli editori. E i premi letterari…

Oltre a questo (resta un mistero perché tanti desiderino scrivere: è una giungla che solo Tremal-Naik riesce a tenere a bada!), ricordiamo cosa è accaduto a Gustave Flaubert e alla sua Madame Bovary; gli attacchi contro Émile Zola per il realismo dei suoi romanzi. Eccetera eccetera.
Eppure in quelle pagine, tutto era articolato e argomentato, ma questo non ha mai risparmiato i processi o le accuse a certi autori.

La questione è semmai capire come gestire al meglio questi nuovi mezzi digitali.
Uscire dalla torre d’avorio e imparare almeno i rudimenti. Non credo affatto che agendo in questa maniera si eviteranno polemiche e attacchi. E nessun medico consiglia l’iscrizione a Twitter come cura alla gastrite.

Se però si fa, lo si faccia cum grano salis. Invidie e gelosie non sono solo dentro la società letteraria, ma ovunque, e le reti sociali sono un ottimo volano per questo genere di cose.

Il vecchio mondo (quello prima del Web), si illudeva di avere un controllo severo sulle proprie parole. In realtà erano relegate all’interno di circoli e ambienti precisi: pagine culturali, convegni, fiere più o meno letterarie. Ma chi diavolo li frequentava? Una minoranza.

Adesso le parole vanno quasi ovunque: anche su Twitter e Facebook, che semplificando parecchio, possiamo considerarli i bar di questi anni. C’è di tutto, compresi i rischi.

Faccio un esempio: se Sempronio entra in un bar e parla bene del Governo (scegliete pure voi il Presidente che preferite), sarà ridicolizzato. Per questo Sempronio quando entra in un bar non parla di politica. È autocensura? No: buonsenso, a parer mio.

Ammesso che Sempronio abbia qualcosa di intelligente da dire, egli sa che buona parte delle persone lascia il cervello sul comodino ed esce, felice di non avere quel carico ingombrante con sé. Ma allora parlerà sempre e solo ai suoi simili? Può darsi. Può anche darsi che parli in un altro luogo e si inneschi una discussione interessante. Ma buona parte delle persone non attendono il nostro verbo.

Twitter e le altri reti sociali sono (anche) lo specchio di una società che ha lavorato duro per rendere la mediocrità sublime, come una coperta calda da avvolgere ai piedi. Non credo affatto che quanti scelgono di farne un uso intelligente riusciranno davvero a ottenere delle persone responsabili. Il richiamo della mediocrità sarà sempre più forte; però se un giorno si scopre che la parola salva, come si fa a tacere?


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