Dopo aver incassato centinaia di milioni in tutto il mondo con il cult del 1997 Full Monty, di cui era produttore, Uberto Pasolini, che non è parente di Pier Paolo ma nel cui sangue scorre comunque il grande cinema dato che è il nipote di Luchino Visconti, è passato alla regia cinque anni fa con il delizioso Machan – La vera storia di una falsa squadra. Quel film che era un delicato dramma venato di fine umorismo ci aveva mostrato un cineasta più che interessante, dallo stile raffinato ed efficace, capace di essere un ottimo narratore nonché un profondo ritrattista dell’animo umano.
Il suo secondo lavoro dietro la macchina da presa, Still Life, presentato a settembre alla Mostra di Venezia nella sezione Orizzonti e premiato per la miglior regia, ha confermato le qualità del suo tocco tenero e garbato, portando sullo schermo una piccola grande storia di amore per la vita, quella di John May, impiegato del Comune incaricato di trovare il parente più prossimo di persone morte in solitudine. Un storia che, in costante equilibrio tra dramma e commedia, porta con classe ed eleganza alla commozione.
Uberto Pasolini, perché questo titolo? Still Life in inglese ha diversi significati…
Si, è vero, ha diversi significati. Significa ad esempio “vita ferma”, come quella del protagonista del film, che praticamente non si muove per tutto il racconto. Oppure vuol dire “ancora una vita”, in quanto ogni vita deve essere vissuta. Ma significa anche “vita di immagini”, intendendo “still“ come “fotografia”. In lingua inglese “still life” poi può essere inteso inoltre come “natura morta”. Per me però non si tratta di un film sulla morte, ma sulla vita, ecco perché il significato più importante per il film è il secondo.
Il protagonista del film fa un mestiere molto particolare. Ma esiste nella realtà?
Assolutamente. Tutti i comuni di Londra hanno una persona incaricata di trovare i parenti delle persone morte in solitudine. E se non ci riesce, si occupa solo delle esequie.
Come ti sei avvicinato a questa storia?
Avevo letto per caso l’intervista ad un uomo che faceva questo lavoro, così ho deciso di conoscerlo e in seguito ho seguito le dinamiche di questo lavoro in due comuni del sud di Londra. L’ho fatto per sei mesi, andando nelle case di queste persone e ai funerali, dove spesso ero l’unico presente.
Uberto Pasolini sul set di Still Life
Cosa ti ha spinto a girare questo film?
Il cinema per me è una scusa per ricercare realtà sociali lontane dalla mia. Io sono cresciuto come un privilegiato, poi ho fatto il banchiere e in seguito in parte per curiosità, in parte per seguire una strada più stimolante sono passato al cinema. Il processo di ricerca prima della sceneggiatura mi dà la possibilità di conoscere nuove realtà sociali. Ad esempio con Machan ho cercato di capire perchè molti lasciano la propria famiglia, la propria cultura, per viaggi spesso tragici per giungere in Occidente con le sue false promesse. Anche Still Life è cominciato come una ricerca, nel tentativo di comprendere cosa vuol dire isolamento nella società occidentale contemporanea. Per me poi ha rappresentato anche un’opportunità di passaggio dalla ricerca sociale a una storia intima e personale: io ho divorziato ma continuo a lavorare insieme a mia moglie, perchè è la musicista dei miei film, e ho una vita comunque molto unita alla mia famiglia. Ci sono sere, però, in cui torno a casa ed entro in una casa vuota, quando invece prima ero abituato a trovare mia moglie e le mie figlie. Il film è stata quindi anche una scusa per un’analisi personale, un’analisi della mia solitudine.
Quanto hai inventato e quanto c’è di vero nel film?
Ho inventato molto poco, alcune storie le ho vissute davvero. Anche perché io ho bisogno di rubare dalla vita di tutti i giorni.
John May riprende qualche persona che hai conosciuto nella realtà?
Ho conosciuto una trentina di persone che fanno questo lavoro, alcuni lo fanno in modo burocratico, altri con più sentimento. Il mio personaggio è il riassunto di due o tre di queste persone. Ma devo dire che la sua personalità solitaria e ossessiva è la mia.
Ti sei ispirato a qualche regista?
Mentre preparavo il film, ho riguardato i film di Ozu, perché è un regista che mi piace molto per la capacità con cui riesce a colpire lo spettatore mantenendo il “volume” basso. Di lui mi piace il fatto che spesso lascia la macchina da presa immobile e racconta storie quotidiane. Dietro la pacatezza dei suoi film c’è una grande forza. Lui è di un altro livello rispetto a me, non voglio fare paragoni, ma il suo cinema mi ha dato la speranza di colpire lo spettatore con una storia raccontata a basso “volume”. In fondo, la vita di tutti i giorni è sottotono.
Di Antonio Valerio Spera per Oggialcinema.net