[...] Com’è evidente, ho davanti a me infinite possibilità di scelta: dall’odio viscerale all’amor fraterno, e in quanto creatura umana sono perfettamente in grado di esercitare la mia libertà d’arbitrio. Non è forse scritto che Dio creò l’uomo fin da principio lasciandolo a discrezione del suo consiglio? Ma poiché quel che perfeziona è bene, e non può non esser male ciò che disumanizza, la libertà sta nella sottomissione alla legge, che non è l’opposto della libertà, come i leggeri insinuano, bensì la sua condizione necessaria. Dovrà dunque trionfare la prima opzione, benché contraria alle mie naturali inclinazioni, ovverosia: stringerti al petto. Ed eccomi al tutto insoddisfatto nelle mie istanze animali, epperò autenticamente libero.
Difficile darti torto, anima mia, assai difficile. Sei un affabulatore ipnotico; non parli con la bocca, parli con le gambe, con le braccia, con le unghie, coi capelli, con le iridi, coi nervi, con tutto il corpo parli, ogni cui torsione è un godimento unico; le tue pause non sono mai vuoti interludî, ma apparecchi di curiosità infrenabile; le parole straripano, satollano. Consentimi tuttavia di pórti alcuni quesiti che ritengo basilari. Così, in puro spirito accademico.
Prendiamo per concesso che il bene umanizzi e perfezioni: ne consegue che il male non può essere liberamente scelto, ma subìto quale mero accidente patologico, fuori d’ogni responsabilità del soggetto; a meno che non giudichi i tuoi simili scempî a tal punto da prediligere consapevolmente strade a sé dannose. Mi permetto di escluderlo a priori. Orbene, se l’autore del male non dev’essere in alcun modo ritenuto responsabile delle proprie azioni in grazia della patologia che, possedendolo, lo scagiona e assolve, non possiamo esimerci dal reputare il concetto di peccato un volgare insulto al principio di non-contraddizione: chi avrebbe animo, infatti, d’incolpare un malato per atti non discendenti da vigile intento, ma da uno stato di cieca aberrazione? Dovremmo ridurci a credere che il tuo Signore abbia fissato leggi per poi crear figli liberi di rispettarle o meno, ma incapaci d’obbedienza e perciò meritevoli del suo castigo? Perché un dio buono e giusto dovrebbe produrre esseri malati e perversi? Per sottoporli ad esame? Bello spasso davvero.
È scritto che Lui gode più della conversione di un peccatore che di novantanove giusti non bisognosi di penitenza; esulta di gioia infinita per il pastore che riporta sulle spalle la pecorella smarrita, per un figlio morto e resuscitato, perduto e ritrovato. Ricorderai certamente le parole di Agostino, al quale hai dedicato per anni intelligenza d’interpretazioni e rigore filologico: ubique maius gaudium molestia maiore praeceditur. Solo un dio scriteriato e invidioso delle proprie creature può aver statuito che la gioia debba essere tanto maggiore quanto più aspra la pena che la precede, dico bene? Rifletti: chi Gli vieta d’elargire felicità e pienezza, forza e costanza, senza pretendere nulla in cambio? Non è Lui, non è forse Lui (le maiuscole reverenziali sono ovviamente in tuo onore) a decidere le regole del gioco? D’altronde, qual è il simbolo della tua bizzarra religione? la croce: culmine della passione, con tutto il suo corredo di sofferenza, tortura, agonia. Lutto e lacrime da perpetuare nei secoli dei secoli. Di più. A che fine dare alla luce esseri inclini a peccare, affamati di perdizione, stracolmi di talento per ogni specie di delitto, e non invece votati al bene, saldi e incrollabili nella fede? Potrebbe, non siamo opera Sua?
[...]
Prendi l’omicidio: quello di un tiranno che opprima e renda infelice un popolo è legittimo, necessario: chi lo commettesse assurgerebbe immancabilmente a rango d’eroe. Vedo che acconsenti, e me ne compiaccio. (Noi due ci comprendiamo sempre meglio, credo proprio che le cose si sistemeranno.) E non sarebbe altrettanto giusto l’assassinio di chi impedisse a uno scienziato di condurre ricerche utili all’intera umanità, magari perché mosso da un’infatuazione amorosa che il giudice sanzionerebbe con pene irrisorie, del tutto inefficaci a tutelare la preziosa autodeterminazione del perseguitato? Non sarebbe giusta, necessaria e parimenti ascrivibile al bene la liberazione del moribondo, forzato a una scimmia di vita insostenibile tanto a sé, che tribola in prima persona, quanto a coloro i quali, premuti da vincoli legali o affettivi d’assistenza, si trascinano fra vani martirî e rinunzie?
Scuoti il capo. Capisco il tuo disagio: tu hai sempre creduto nella divinità e nella sacralità della vita, qualunque essa sia, a prescindere dal grado di coscienza, dallo stadio di sviluppo in cui si trova, spesso a suo dispetto. Infermo o funambolo, santo o brigante, genio o embrione, ogni creatura interpreta un ruolo preciso entro il creato; un ruolo che potrà sfuggire alle misere facoltà di noi umani, ma unico e indispensabile, perché voluto da Lui.
Tutte le creature? Proprio tutte? Anche il tale sotto il viadotto, mano tesa e timpani rotti, sputato dagli adulti, schernito dai mocciosi, che ingaggia battaglie contro topi più grandi di lui, e mangia croste e formiche, e respira per bestemmiare il giorno in cui è nato, e maledire chi l’ha messo al mondo senza il suo consenso e non si decide a scaraventarlo nell’abisso dove agogna di finire? Anche il padre irreprensibile, faro d’integrità e specchiate virtù, che ogni notte sguscia dal letto per accucciarsi come un serpe in quello della figlia? Anche il farabutto che assalta la madre e non esita a spararle in faccia per quattro monete che scialacquerà in un minuto? Reputi sacra la vita di chi vorrebbe perderla? di chi l’ha stravissuta e si aggira nei suoi meandri senza riuscire in nessun modo, in nessun modo dico, ad assegnarle un senso?
Non dire che spetta a ciascuno di noi dare un senso alle cose. Non dire che consideri divina persino la tua vita: rischierei di uscire dai gangheri ancora una volta, e non sarebbe spettacolo edificante, ti assicuro.
Da Là comincia il Messico di Gualberto Alvino, Firenze, Polistampa, 2008.