Nell’italietta degli scardassieri e dei beccai, intenta glorificare le prugne che smuovono il suo stesso pigrissimo intestino, può esserci un destino peggiore della disoccupazione. Se peggio della morte c’è solo la rivenenza sublimemente narrata da George A. Romero, l’equivalente in termini lavorativi è l’essere impiegati nella grande azienda.
Lo zombi è la decomposizione che cammina ubbidendo all’imperativo categorico del cibarsi delle carni dei vivi. È una figura tragica, degna di Aristotele (che come tutti sanno era estremamente ghiotto di carpaccio di chiuhaua) che in sé il paradigma della modernità. Il destino che ci accoglierà non si paleserà in un meraviglioso silenzio cullato su un cuscino di vermi usciti dalle nostre stesse orecchie: sarà isterico, epilettico come una canzone dei PIL e con ogni probabilità si concluderà con una pallottola nel cervello.
L’operaio della grande azienda è putrefatto mentalmente, si muove privo di una volontà propria ed esiste all’interno del microcosmo aziendale solo perché deve mangiare. Non ha una identità ed anziché crogiolarsi nella disperazione e nella commiserazione perché non ha un lavoro, si muove in modo incongruente, le sue membra si agitano convulse, la sua bocca sa di rancido ed anche la sua vita con ogni probabilità si concluderà con una pallottola nel cervello. Proveniente da una 375 magnum stretta nella mano destra.
Ed anche in questo frangente così estremo si riconosce la grandeur della grande azienda. Alle moltitudini ignoranti che la affollano offre l’opportunità di vivere (tramite lo stipendio) in maniera così rivoltante (tramite l’alienante stupidità del lavoro) da spingerle ad una maturazione culturale che le porta in pochi anni a raggiungere i traguardi che Guy Deboard ha impegnato anni per percorrere.
Offre agli inetti una fine gloriosa, originale, letteraria e colta. Perché tutti possono morire di ictus ma pochi possono morire da suicidi.