Posted 12 maggio 2014 in Elezioni ad est, Ucraina with 4 Comments
di Oleksiy Bondarenko
Code di persone di ogni età si affollano fuori dai seggi elettorali improvvisati (alcuni anche all’aperto fuori dai palazzi amministrativi e dalle scuole), nella città di Donetsk e negli altri centri abitati dell’omonima regione. Stesso scenario a Lugansk e più generalmente nell’intero Donbass, regione geografica che si estende a cavallo tra il territorio russo e quello ucraino e che prende il nome dal fiume Donec (affluente del Don).
In altri centri abitati, come Slovyansk, Kramatorsk, Krasnoarmeysk e Krasny Liman, non si è riuscito a concludere le operazioni di voto in tutti i seggi a causa degli scontri con l’esercito regolare ucraino, che sta continuando “l’operazione anti-terrorismo” (OAT) avviata nell’est del paese ormai da qualche settimana. A Mariupol invece i seggi sono stati attivi nonostante il fastidioso sottofondo delle raffiche di armi da fuoco appena fuori città.
Sembra piuttosto superfluo soffermarsi sui dati “ufficiali” delle consultazioni (secondo gli organizzatori circa il 75% di affluenza nella regione di Donetsk e 81% in quella di Lugansk il 90% dei quali in favore dell’autonomia) più o meno “bulgari”, svolte in un clima tutt’altro che “elettorale” e spesso “scortate” da uomini armati. Il referendum però, voluto fortemente dalle auto-proclamate autorità delle due oblast’, sancisce l’inizio di una nuova fase di un conflitto intestino che ormai da mesi sta attraversando tutta l’Ucraina.
Regolarità del voto
Non bisogna essere grandi esperti per comprendere l’effettiva illegittimità e irregolarità dei due referendum. Innanzitutto, secondo la legislazione vigente, solo una consultazione a livello nazionale può avere legittimità e apportare modifiche all’integrità territoriale del paese. Inoltre, il controllo che le autorità locali esercitano sul territorio delle due regioni non è totale e alcuni centri abitati si trovano sotto l’autorità del governo centrale. L’assenza di un quorum prefissato per la validità delle due consultazioni e l’utilizzo di registri elettorali non ufficiali, obsoleti e non aggiornati (quelli del 2012, ma anche del 2004), hanno reso inevitabile il sospetto di manipolazioni, voti multipli e brogli generali. Inoltre, l’assenza di osservatori internazionali, che hanno deciso di boicottare il voto considerandolo illegittimo, non permette una più approfondita verifica sulla regolarità.
Sebbene sembrano non risultare particolari casi di intimidazione e pressione sui votanti, il clima surreale in cui si sono svolti i due referendum, soprattutto in alcuni centri abitati dove l’operazione anti-terrorismo ha ripreso impeto a partire dalla tarda mattinata, ha inevitabilmente avuto un’influenza sull’andamento del voto. Nonostante le debolissime, se non del tutto assenti, basi legali, però, quello che più conta sono le conseguenze sui futuri sviluppi della “questione ucraina” che ha portato con se la giornata di ieri.
Un’altra Crimea?
“Sostenete l’atto di autonomia governativa della Repubblica Popolare di Donetsk /Lugansk?” è il quesito al quale i votanti hanno dovuto rispondere con un “si” o con un “no”. Posto in questi termini, come è evidente, lascia spazio a varie interpretazioni e appare ancora presto per comprendere se questa consultazione popolare porterà ad un dialogo con Kiev in ottica di una riforma in senso federale, oppure se invece avvierà il percorso verso la piena autonomia e indipendenza del Donbass. Inoltre, anche se nei giorni scorsi sulle agenzie di stampa e quotidiani ucraini sono rimbalzate numerose voci su un possibile secondo turno da svolgere il 18 maggio con lo scopo di determinare “l’unione delle Repubbliche autonome” di Donetsk e Lugansk alla Federazione Russa, numerose smentite dalle autorità locali sono arrivate nelle ore immediatamente precedenti all’apertura dei seggi.
La situazione nel Donbass appare piuttosto differente da quella vista in Crimea anche a causa della posizione di Mosca. In effetti, già qualche giorno prima del referendum, il 7 maggio scorso, il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, durante un incontro con i rappresentanti dell’OSCE, ha lanciato importanti segnali ai leader delle autorità locali nell’est dell’Ucraina. Putin, pur non mancando di fissare alcune condizioni, ha parlato in termini piuttosto distensivi nei confronti delle autorità di Kiev, sottolineando come le elezioni Presidenziali fissate per il 25 maggio prossimo rappresentino un’evoluzione “nella giusta direzione”. Il presidente russo ha anche suggerito agli elementi che controllano le regioni di Donetsk e Lugansk di posporre il referendum evitando di acutizzare lo scontro con Kiev.
Sebbene i due referendum possano aggiungere altre carte al mazzo del Cremlino, utili per regolare la situazione in Ucraina in maniera più favorevole a Mosca, un sostegno incondizionato (per non parlare di annessione) alle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk comporterebbe probabilmente costi ben più alti rispetto ai benefici. Come sottolinea ad esempio Dmitri Trenin, direttore del Carnegie Moscow Center, Putin e il suo entourage hanno più volte dimostrato di essere abili strateghi, capaci di calcolare con estremo realismo i pro e i contro delle proprie azioni. Proprio in questo modo possono essere interpretate le dichiarazioni distensive del Presidente russo all’alba del referendum e proprio per questo sembra piuttosto improbabile il ripetersi della situazione vista a marzo in Crimea.
Nonostante il raffreddamento ufficiale del sostegno da parte di Mosca, le autorità delle auto-proclamate Repubbliche Popolari hanno comunque raggiunto il loro obiettivo. Come sottolinea Roman Lyagin, responsabile della commissione elettorale della Repubblica di Donetsk, a Russia Today, l’esito del referendum non definirà l’indipendenza della regione dall’Ucraina, ma significherà la legittimazione popolare delle autorità che hanno preso il controllo della regione, concedendo loro il “diritto morale di trattare” con il governo di Kiev.
Kiev all’angolo
Kiev appare sempre meno capace di controllare la situazione nell’est del paese nonostante il continuo sostegno della comunità internazionale. Il Presidente ad interim, Oleksandr Turcinov, ha definito come una “farsa” i due referendum, promettendo una serie di azioni giudiziarie contro i suoi organizzatori. A parte la retorica, però, la giornata di domenica dimostra il fallimento e l’inefficacia dell’operazione anti-terrorismo nel sud-est del paese sia da un punto di vista militare, sia da quello politico. Il mal ridotto, poco equipaggiato e moralmente impreparato esercito ucraino ha dimostrato tutte le proprie difficoltà non riuscendo a strappare, se non per brevi lassi di tempo, le postazioni strategiche in mano ai “ribelli”. I soldati hanno spesso trovato l’opposizione della popolazione locale e in alcuni casi si sono volutamente arresi ai “miliziani”.
Ma l’OAT si è dimostrata fallimentare anche sul piano politico, contribuendo a radicalizzare il conflitto, alienare ulteriormente il sostegno popolare al governo centrale e non riuscendo a conseguire il suo principale obiettivo, ripulire il territorio dalle varie sacche di resistenza ed evitare ogni tipo di legittimazione popolare per le autoproclamate autorità locali.
Possibili vie d’uscita
Gli scenari che si presentano nel post 11 maggio del Donbass non sono moltissimi e, mettendo da parte l’ipotesi di un’annessione (alla Russia) che appare piuttosto improbabile, rimangono due possibili strade da percorrere.
La prima è il dialogo tra Kiev e le due autoproclamate Repubbliche di Donetsk e Lugansk. Tale dialogo potrebbe comportare la concessione da parte di Kiev di importanti autonomie regionali tramite una revisione della costituzione in termini federativi, mantenendo così l’unitarietà del paese. Quest’opzione è stata fin ora più volte valutata e respinta dalla Verhovna Rada, l’ultima qualche giorno fa, quando il Parlamento ha rigettato una proposta di legge per l’organizzazione di un referendum (non vincolante) sulla decentralizzazione del potere in concomitanza con le elezioni presidenziali del 25 maggio. “Deve essere svolto, ma non durante la guerra” ha dichiarato un parlamentare di Batkivshchyna, Oleksandr Bryhynets. Verrebbe da chiedersi se lo stesso concetto valga anche per le presidenziali stesse.
La seconda opzione è quella che non contempla il dialogo, ma una reazione piuttosto muscolare ai referendum. Kiev potrebbe cercare di tenere “congelato” il conflitto, continuando l’operazione anti-terrorismo a bassa intensità, cercando così di navigare a vista fino al 25 maggio. Quest’opzione, però, rischia di minare seriamente la credibilità delle elezioni presidenziali che i leader di Donetsk e Lugansk hanno già promesso di boicottare. Dall’altra parte è forse ancor meno opportuna una vera e propria operazione militare ad alta intensità, che potrebbe sì sferrare un duro colpo ai “ribelli”, ma anche comportare l’inevitabile introduzione dello “stato d’emergenza” a livello nazionale, fattore che allontanerebbe definitivamente il miraggio delle elezioni.
Dopo i referendum, quindi, la palla passa di nuovo al governo di Kiev, che ha visto fallire tutte le proprie mosse e che sembra ormai consapevole di non avere alternative che non comportino costi politici. In ultimo, il tutto è condizionato anche dagli obiettivi dei singoli candidati. Se Poroschenko, dato per favorito, non vuole farsi sfuggire l’opportunità di essere eletto, la sua principale rivale, Yulia Tymoschenko, non sembra guardare con dispiacere la possibilità di rimandare la sfida elettorale.
Foto: Reuters_MarkoDjurica
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