Svolgo continuamente un processo di autoanalisi e sono convinto che, seppur l'obiettività sia lontana come il centro dalla circonferenza che percorro, sia proprio questa traiettoria regolare a mantenere viva la relazione con quel punto privilegiato che potrebbe (un condizionale puramente teorico) rimanere inviolato pur rendendosi essenziale per il percorso stesso.
In una parola, la non-vicinanza è comunque una constatazione della funzione fondante di quel centro e quindi, seppur annaspando a muovendomi a tentoni, penso che una discreta analisi (giudicante int-esternamente) non può che lentamente (ri-)modellare il senso di molti eventi.
Decostruendo e costruendo alcune esperienze, sono tornato nuovamente sul titolo di questo blog, dato originariamente ad una raccolta poetica, "Vertigini astratte". Inizialmente scelsi questa espressione con un "semplice" moto di spirito, mi piacque e la ritenni (inconsciamente) adeguata a descrivere l'insieme di poesie che stavo pubblicando. Ma dato che la storia non è un passato inerte ma piuttosto l'essenza del presente che si attua nella scelta, sono sempre stato convinto che qualcosa in me stesse spingendo verso una scelta particolare di cui io dovevo essere significante.
Il senso di vertigine, come descritto da Sartre e successivamente da Kundera nel suo capolavoro "L'insostenibile leggerezza dell'essere", esistenzialisticamente parlando (la corrente in cui maggiormente mi sento "a casa"), non è affatto paura del vuoto in quanto tale; non nasce dall'oggetto, dalla minaccia che trasporta e che si riversa sul soggetto, ma è piuttosto l'angoscia (del soggetto) che si attua nella possibilità di poter cadere, di potersi tuffare in quel vuoto che inghiotte senza scampo. Non sono i parapetti ad impedirla, ma solo la malafede nella possibilità concreta del suicidio.
D'altro canto, l'astrazione è un processo che dal singolare giunge ad un universale trascendente, ovvero sposta l'attenzione dall'evento, dalla scelta contingente, all'estrema possibilità della re-iterazione. Disegnare un quadrato è possibile perchè si "possiede" l'astrazione mentale del "quadrato" e la materializzazione di una sua istanza è solo una delle infinite possibilità. Se quindi la vertigine diviene astratta, inizia spontaneamente a fare a meno di burroni, grattacieli, terrazze e così via, per innestare la possibilità della scelta drammatica (da non intendersi necessariamente come auto-assassinio) nella possibilità quotidiana.
Si potrebbe obiettare che la quotidianità offre già abbastanza motivi di scelta, che l'uomo è sempre e comunque "alla-possibilità" e che, perciò, il ruolo delle vertigini, al di fuori del loro contesto naturale, è superfluo. Ciò è indubbiamente vero, ma non bisogna dimenticare che il (non-)senso degli eventi è guidato molto dalla risonanza che l'inconscio riesce a creare con determinate situazioni: la risolutezza è sempre particolare, in quanto un'eventuale sua generalizzazione equivarrebbe al superamento della scelta e quindi della libertà; astrarre una (valida) ragione d'angoscia è pertanto un'ipoteca che l'inconscio crea nei confronti di se stesso, riservandosi la possibilità di risvegliare la possibilità intrinseca nella "vertigine" ogniqualvolta gli eventi lo richiedano.
"Vertigini astratte", come trascendenza dell'angoscia in un'angoscia che si angoscia per la sua stessa costante inattualità, è quindi, ad oggi, il senso più essenziale della mia vita. Pur consapevole di essere sommerso dalla malafede, il panno di spugna ha (ri-)velato un frammento abbastanza utile che altrimenti avrebbe finito i suoi giorni osservando impaziente sul ciglio di un precipizio.