Premetto che, se vi andate a leggere le varie recensioni che osannano, e a ragione, questo film, troverete una chiave di lettura del tutto opposta a quella con la quale l’ho interpretato io. Chiunque vi debba descrivere Another Year di Mike Leigh tenderà a farvi lo stesso identico riassunto visivo e concettuale: in un mondo di infelicità, di disagio esistenziale e di continuo disadattamento alla vita, esiste un porto sicuro dove rifugiarsi: la casa di una coppia di sessantenni, avvolti dalla loro solida felicità, dal calore della loro cucina, dalla loro rassicurante intesa, dalla loro gratuita e calda amicizia.
Beh, sono tutte delle dannatissime balle! Perchè io dei due protagonisti ho un’idea del tutto diversa….
C’è una coppia di sessantenni, è vero. Ed è vero che conducono la vita che qualunque sessantenne (ma anche qualche trentenne, me compreso..) vorrebbe vivere. Una bella casa, un menage matrimoniale intatto, sani hobbies a cullare una vecchiaia non ancora compromessa da lutti e malattie. Tutto verissimo. Sono rassicuranti, amichevoli, alla mano. Ospitali, di larghe vedute, sono gli amici, i genitori, i parenti che tutti vorremmo avere. Può darsi. Oppure no.
Perchè la cosa più vera è che quei due amabili vecchi, i vecchi che tutti noi vorremmo essere quando saremo vecchi, beh, dietro quella coppia di santi laici in realtà si nascondono due perfetti stronzi.
E’ vero, accolgono in casa amici e familiari ammaccati da dolori a caso, apparentemente offrono riparo alla solitudine, alla frustrazione, al desiderio di scomparire di tutta la varia collezione di infelici che viene a bussare alla loro porta. Offrono cibo, compagnia, consigli, sorrisi. Sembra tutto così bello, umano, compartecipe.
Compartecipe un cazzo. Si tratta in realtà di due persone rese ottuse dalla loro stessa felicità, alienate dal loro stesso menage perfetto. Non hanno la minima possibilità di comprendere il dolore altrui, perché non lo conoscono. L’assenza prolungata dal dolore quotidiano della gente che sopravvive, ne ha fatto due automi che al massimo riescono ad elaborare una confusa ma distante pietà, quando non una compassione pelosa da dame di carità. Fanno beneficenza, non danno affetto. Accolgono l’infelice in casa propria con lo stesso atteggiamento con cui andrebbero a trovare un malato all’ospedale. Sebbene si circondino di gente, il dolore sul volto e nella voce di quella stessa gente non sembra sfiorarli in modo autentico. Non piangono mai, il loro tono di voce è sempre identicamente cordiale, allegro, positivo. Anche quando gli capitano per casa relitti umani, possibili aspiranti suicidi, persone il cui stesso viso è devastato dall’infelicità cronica, non si scompongono. Regalano decine di pacche sulle spalle, qualche abbraccio, ma la verità è che davanti al dolore non sanno sciogliersi, non si scompongono, in altre parole la loro felicità cristallizzata li ha resi inumani.
Abbracciati a letto, la sera, parlano degli infelici che hanno accolto in casa con il sollievo anzitutto di non essere come loro, con un rarefatto dispiacere, ma non sanno provare dolore, nemmeno uno straccio di dolore verso il dolore altrui.
E’ il destino delle persone felici, farsi assorbire dalla propria perfezione e perdere i contatti con la vita reale, che invece è vita di pianti, strepiti e desideri neri di morire? Pare di sì. Pare la tesi forse involontaria del regista. Nel film, il figlio della coppia all’inizio è un trentenne insoddisfatto, frustrato, silenzioso, che vede tutti i suoi amici sposarsi e far figli. Poi all’improvviso incontra la donna della sua vita, e allo stesso modo del padre e della madre, in quelle tavolate gioiose popolate anche da infelici, perde i contatti col dolore e con la compassione.
Nella scena più spietata del film, padre madre figlio e fidanzata vomitano letteralmente in faccia la propria straordinaria felicità all’infelice di turno, una donna sbandata, sola, alcolizzata, pericolosamente depressa. Non si curano di avere di fronte una persona che fa fatica ad arrivare a fine giornata senza piangere, senza ubriacarsi, senza infliggersi autoumiliazioni continue. No, la felicità cronica è immune da delicatezze, non conosce alcuna sensibilità. La gente così vergognosamente felice è come cieca, è come sorda. L’egoismo, la traccia più indelebile della nostra stessa natura umana, in loro riemerge feroce, nelle vesti apparentemente rassicuranti di un sorriso o di una pacca sulle spalle.
Altro che rifugio sicuro, altro che porto da cui ripararsi dal dolore: non c’è nulla di più orrendo della coppia di protagonisti di questo film. Ma forse è vero che rappresentano ciò che vorremmo essere. Persone che nella intensa e durevole vita di coppia sono riuscite ad asciugarsi da ogni angoscia, liberi dal dolore, sprovvisti della capacità di elaborarlo.
Non è il paradiso? Dipende. Ad osservarli, ripeto, si prova orrore autentico, ancor prima che invidia.
Eppure, non vorremmo diventare come loro? Non baratteremmo l’assoluta incapacità di comprendere il prossimo, di mettersi nei suoi panni, pur di liberarci dal dolore? Non rinunceremmo volentieri all’umanità che è propria solo di chi si porta dietro le sue sofferenze, non rischieremmo volentieri di ritrovarci un giorno alienati e insensibili, pur di doverci preoccupare solo della buona riuscita del nostro orto in affitto e della buona cottura dei nostri piatti, sordi alle urla del quotidiano e alle richieste di aiuto della gente che sta male, riparati nelle coperte l’uno dell’altro?
Bella domanda. Cui forse mi vergognerei di dare una risposta sincera.
La solita sarabanda di solitudini, tristezze e piccoli squarci di speranza di cui si popolano i film di Mike Leigh.