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Un'altra occasione sprecata

Creato il 20 settembre 2011 da Dallenebbiemantovane

Se non me l’avesse detto il Pampu, che Cose dell’altro mondo (Francesco Patierno, Italia 2011) era stato contestato al Festival di Venezia dalla Lega Nord, non ci avrei creduto: roba dell’altro mondo, appunto.
Trattasi infatti di un’innocua quanto gustosa commedia all’italiana con gli stessi pregi e difetti della fiction da grande e da piccolo schermo italica.

Quelli che Aldo Grasso ha criticato la settimana scorsa da Corriere Tv citando ad esempio Il silenzio dell’acqua, in onda in queste settimane su Rai Uno. Che cosa dice Grasso, in sostanza? Le stesse cose che dico io da tempo: che se non c’è una sceneggiatura solida, frana tutto. Ci puoi mettere tutti i sex symbol che vuoi (Scamarcio), le prezzemoline (la Lodovini), qualche battuta, l’ambientazione suggestiva (là Palermo, in questo film Bassano del Grappa), ma senza un team di sceneggiatori alle tue spalle che facciano il lavoro sporco – quello che non si deve vedere – fai fiction di cattiva qualità.

Ora, restando soprattutto al genere commedia, che è quello per il quale il cinema italiano sarà sempre ricordato nel mondo, quand’è che abbiamo avuto, in Italia, gli sceneggiatori migliori? È presto detto: dagli anni Cinquanta ai Settanta. A parte Fellini, che usando un suo metodo irripetibile, surrealista e autarchico non faceva testo, gli altri registi avevano alle spalle Age e Scarpelli, Steno, Suso Cecchi d’Amico, Pasquale Festa Campanile, Pietro Germi e compagnia bella.
E si vedeva.
Confrontiamo quelle opere con l’attuale commedia, non solo i cinepanettoni dei Vanzina ma un qualsiasi Verdone (uno che purtroppo ha il vizio di fare tutto da solo, regia, soggetto, sceneggiatura, interpretazione, e si vede), un qualsiasi Veronesi, e ci renderemo conto che a latitare non sono solo idee forti e storie potenti, grandi interpreti e grandi talenti comici, ma soprattutto sceneggiature fatte da professionisti.
Lo sanno anche gli sceneggiatori coscienziosi, leggete cosa scrive Fabio Bonifacci nel suo blog. Oppure guardatevi Boris (in tv o al cinema): che cosa sia una vera sceneggiatura, ve lo spiega sia nel testo che nel metatesto.

Tornando a Cose dell’altro mondo, si esce dalla sala un po’ così: ma come, hai un bello spunto, fantascientifico, vagamente saramaghiano (improvvisamente, in una notte di temporale, spariscono dal Veneto, e poi dall’Italia, tutti gli extracomunitari, e gli italiani si trovano a fare i conti con tutto quello che non sanno o vogliono più fare), e lo chiudi così?
Che spreco. Soprattutto visto che ci hai infilato l’invocazione collettiva sul fiume affinché gli “amici lavoratori” tornino. Qualcosa, dopo, dovrebbe succedere, invece no. Lo spettatore è curioso di sapere se la maestra ritroverà il suo ragazzo nero, e l’imprenditore razzista la prostituta nigeriana che chiamava Ciccia, e invece niente.

Anche i conflitti tra i personaggi in seguito alla scomparsa degli stranieri vengono abbozzati, ma senza il coraggio di portarli avanti, e sì che ce ne sarebbe di materiale: come si troverà la maestra con il suo ex, poliziotto cialtrone e geloso, visto che aspetta un figlio da un altro? Si riappacificheranno lei e il padre? Come andrà ora tra il padre e la madre, che vediamo a letto, lei impegnata a leggere un manuale su come aggiustare le cose rotte, lui che vorrebbe fare l’amore?
E il razzismo, tema principe del film, come si evolverà? (Sì, mi rendo conto che è un tema difficile da trattare senza cadere nella banalità da tema di seconda elementare, e infatti anche nei bambini del film non vediamo nessuna analisi a parte il fatto che sentono genericamente la mancanza dei loro compagni scomparsi.)

Il genere commedia, da Aristofane e Plauto in poi, non ha mai impedito a nessuno di analizzare caratteri e rapporti umani. Invece qui siamo tutti buoni, diamo degli spunti, ma il coraggio di scelte precise non chiedetecelo, non sia mai che la critica accusi di razzismo noi, che il film l’abbiamo fatto.
Infatti nell’ultima scena vediamo l’Abatantuono pentito dirigersi su un camion scalcinato alla volta di Nairobi, alla ricerca degli extracomunitari perduti: ci mancava solo che lo vestissero da fra’ Cristoforo e la conversione era completa!

Senza contare l’altro grande difetto di questo film, e di tanti altri simili: se fai un film ambientato nella provincia profonda, che sia il Veneto o la Sicilia – e l’hai deciso tu regista, tu produttore, mica noi spettatori – coerenza vorrebbe che almeno la maggior parte dei protagonisti parlasse vicentino, padovano o, a seconda, catanese e palermitano.
Che forse, mi sovviene, è la ragione per cui l’unica fiction “regionale” che, da anni, funziona e fa grandi ascolti è Montalbano, dove non servono grandi sceneggiatori e grandi dialoghisti perché ha già fatto tutto Camilleri, nel suo neo-siculo, d’invenzione ma efficace.

Ricordo anche che quando Mazzacurati, veneto, girò La lingua del santo, scelse Albanese e Bentivoglio, però li fece recitare (benissimo, peraltro) in padovano, com’era giusto che fosse: se assumiamo che lo spettatore non sia disposto a credere a tutto, una cadenza consona al luogo può fare la differenza, e quasi sempre la fa, in termini di sospensione dell’incredulità.
Mentre purtroppo - in Cose dell’altro mondo quanto in Il silenzio dell’acqua – il cast riunisce allegramente un padroncino che parla mezzo bresciano e mezzo milanese (Abatantuono), sua figlia che parla umbro (la Lodovini, incongrua sia nel film che nella fiction tv), il poliziotto veneto che però parla romanesco (Mastrandrea), e così via, al punto che l’unico credibile è Vitaliano Trevisan nel ruolo del tassista.

Non sto dicendo che recitino male (oddio, la Lodovini sì, è estremamente acerba per tutti questi ruoli da protagonista, ma la colpa è di chi l’ha scelta), solo che avrebbero dovuto prendere lezioni di dizione trevisana: invece non è stato fatto neanche lo sforzo dell’apparenza.
Palma d’oro dell’antipatia all’inspiegabile Sergio Bustric, che compare a metà film come predicatore buono antitetico ad Abatantuono e organizza, invano, il burièl sul Grappa nel prefinale. La sua interpretazione è da manuale - il manuale di cosa non fare in film ambientati nell’Italia di oggi -, una recitazione così teatrale, impostata e sopra le righe, che persino Carmelo Bene l’avrebbe cacciato dal palco, figuriamoci dal set cinematografico.

Restano i pregi: la bella ambientazione già citata, alcuni personaggi minori abbozzati bene (il tassista, i bambini, la mamma di Mastrandrea con l’Alzheimer), pezzi comici deliziosi (le tirate di Abatantuono alla tv privata, che sembra l’ex assessore lombardo Prosperini, i vecchietti legati in fila).
Se quel che volete è passare una serata divertente con qualche cliché, è il film per voi.
Peccato che sia stata un’altra occasione sprecata.


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