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Quando, sul finire del 2010, Mohamed Bouazizi si dà fuoco per protestare contro la polizia tunisina che gli aveva confiscato la frutta e la verdura che vendeva per guadagnarsi da vivere e per non pensare al foglio di carta rilasciatogli dall’Università, insieme ad un posto nella statistica dei disoccupati, mai avrebbe pensato che sarebbe presto diventato un novello Jan Palach capace di infiammare tutto il Nord Africa. Da Sidi Bouzid, la “rivoluzione dei gelsomini” contagia rapidamente le principali città tunisine. I manifestanti individuano il responsabile della disoccupazione, della miseria del popolo e della corruzione politica nel presidente Ben Ali, che il 14 gennaio viene costretto alla fuga. Le prime elezioni libere dall’indipendenza registrano in seguito la vittoria del partito islamista moderato, illegale sotto il regime.
Leitmotiv del 2011 è la piazza e i suoi dimostranti, per lo più giovani, con una elevata percentuale di donne, un particolare significativo per i paesi islamici. La copertina che il settimanale statunitense Time dedica alla “person of the year” ritrae proprio una manifestante con il volto coperto. Un’immagine vista a Tunisi, al Cairo, a Bengasi, ma anche a New York, a Roma, a Madrid, ad Atene. E sono di pochi giorni fa fotogrammi che passeranno alla storia e che immortalano il pestaggio della ragazza egiziana “dal reggiseno blu”.
La rivolta tunisina innesca la “primavera araba”, una coraggiosa sfida ai regimi accompagnata da una domanda di democrazia e di partecipazione senza precedenti, che viaggia principalmente sulla rete, attraverso gli aggiornamenti in tempo reale dei blogger e su Twitter, il social network che diventa strumento indispensabile per il “citizen journalism”. L’informazione passa dagli smarthphone dei manifestanti alla rete, raggiungendo ogni angolo del pianeta in barba a qualsiasi tentativo di restrizione della libertà. Yemen, Baharein, quindi l’Egitto, con piazza Tahir, al Cairo, che diventa il luogo simbolo della sollevazione. Le cariche della polizia, i morti e gli arresti non fermano un processo irreversibile che si conclude con le dimissioni del presidente Mubarak, seguite dall’arresto e dal passaggio del potere ai militari. Dopo quarant’anni crolla anche il regime libico. L’opposizione a Gheddafi si organizza sfruttando le potenzialità del web, ma a sancire la fine del rais sarà la risoluzione 1973 dell’Onu che autorizza l’intervento della comunità internazionale per istituire una no-fly zone e per proteggere i civili.
Il 2011 infiamma le piazze di tutto il mondo. In primavera, gli indignados spagnoli costringono alle dimissioni anticipate Zapatero. A Manhattan, Occupy Wall Street per due mesi, fino al violento sgombero del 15 novembre, diventa il centro mondiale della richiesta di cambiamento nelle politiche sociali e occupazionali. Un’assemblea permanente a Zuccotti Park, culminata con la “giornata mondiale dell’indignazione” (15 ottobre), coinvolge oltre 1.000 città in tutto il mondo. Crisi economica, ricette inadeguate, reazione di una generazione che non si fida più dei suoi rappresentanti politici e, come nel ’68, ritira la delega, sono gli ingredienti della contestazione globale. La rete la sua arma più incisiva.
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