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Un atto di scoperta

Da Marcofre

La scrittura è un atto di scoperta

 

Lo afferma Raymond Carver. Questo è bene, perché va verso una precisa direzione, anzi “la” direzione. Se infatti si bada a leggere come la pensano certi autori, ci si rende conto che buona parte di costoro scrive “a sua insaputa”.

Lo so, è un’affermazione che inquieta (vista anche certa cronaca giudiziaria), e che non dice tutto. Però è sufficiente ascoltare quello che scrive Flannery O’Connor a proposito di uno dei suoi racconti più importanti “Brava gente di campagna”.

 

Una mattina mi sono trovata a descrivere due donne di cui sapevo un paio di cose, e, prima che me ne rendessi conto, una delle due era già dotata di figlia con gamba di legno.

 

Molti affermano che occorre avere le idee chiare, altrimenti non si sa dove la storia condurrà noi, e i lettori. Può darsi, e poi ciascuno deve fare un po’ come desidera. Però sia Carver che Flannery O’Connor affermano più o meno la medesima cosa: si può ignorare? Non credo.

Due indizi fanno una prova (o forse erano tre? Non ricordo). Quello che amo della frase del buon Raymond è che contiene la parola “atto”.

No, non c’è alcuna musa che scende dall’Olimpo a ispirare, a indicare cosa si deve scrivere. L’autore agisce; e si comprende come la scrittura non sia poi molto differente da una scoperta scientifica. Lo so, alcuni diranno che si tratta di fesserie perché la scienza salva le vite umane, eccetera eccetera.

A parte il fatto che buona parte della scienza salva le vite umane provviste di carte di credito. Le altre? Accomodarsi fuori, grazie, vicino al compattatore dei rifiuti.

Ciò che bisogna avere in testa (se si decide di scrive in un certo modo), è che ci si sobbarca una bella fatica. Non pretendo di dire che lavorare in un’officina sia una bazzecola; anche perché non mi rivolgo affatto ai lettori. Bensì a quanti pensano che “non ci vuole niente a scrivere come Carver”. È un errore piuttosto comune, ma pure abbastanza grave. Si esalta (come è giusto), la fatica fisica per deridere quella intellettuale, di fatto considerata una posa e niente più.

Qualunque atto, quindi anche intellettuale, parte da una consapevolezza: che la maggior parte delle persone NON ha. Nemmeno immagina che si debba avere qualcosa del genere. Ricordo ancora una volta il Manzoni che diceva che scrivere era “pensarci su”. Questo è già un atto, che però è possibile solo dopo che si è effettuata una scrupolosa cernita: questo lo teniamo, questo lo gettiamo.

La cernita arriva dopo che siamo cresciuti, e dallo sguardo sulle cose siamo passati all’osservazione. Ne ho già parlato in qualche post precedente, ma qui approfitto per ampliare il discorso sulla cernita, o scelta, dei materiali.

 

Spesso un autore sembra avere una predilezione particolare per storie e individui poco raccomandabili. In parte è vero e non sto qui a riscrivere il perché e il percome: si sa il motivo che lo conduce a questo genere di comportamento. Nessuno vuole avere a che fare con i poveracci, le erbacce, e di solito un autore celebra le erbacce infatti. La narrativa ricorda (forse) quello che abbiamo lasciato in sospeso, abbandonato, considerato indegno. Eppure è roba nostra, perché è pur sempre umanità.

Però le erbacce possono persino essere “pericolose”; occorre cioè maneggiarle con la dovuta cura. Scegliere le parole opportune, adatte, costruire con perizia l’edificio della storia, creare le giuste aperture in grado di illuminare nel modo giusto gli snodi di una storia.

Non pretendo di convincere qualcuno a proposito della “fatica” della scrittura. Diciamo però che tutti gli atti devono essere responsabili, e se scegli la parola ti ficchi in un ginepraio. Qui la responsabilità è ancora più elevata perché da lì deve uscire viva la storia; e se l’autore ci resta secco, diventa matto e prepara i piani per Waterloo, non importa.

È la storia che conta.


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