Il titolo completo di questo post dovrebbe essere:
“Un buon incipit nasce nell’occhio, per questo occorre frequentare una scuola di scrittura. Genuina però”.
Che cosa voglio dire?
Buona parte dei consigli che si leggono in giro sul Web, o in certi manuali dedicati allo scrittore esordiente, recitano più o meno le stesse cose. Vale a dire:
- Curare sintassi e grammatica (giusto: visto quello che si vede e si sente in giro, c’è da piangere);
- Scrivere in maniera semplice (già qui avrei parecchio da ridire);
- Parlare solo di quello che si conosce (come? Ma, ma, ma: Tolstoj era un uomo e ha scritto Anna Karenina. Allora era un mago! Un grande mago!);
- L’importanza delle emozioni.
Di fronte a queste (e altre), affermazioni, io resto perplesso. Accanto ad aspetti ovvi (scrivere bene, evitare gli errori che sono cosa ben diversa dai refusi), mi trovo a che fare sempre con la sindrome della ricetta.
Un insieme di dritte, di strategie, di furbizie che amalgamate a dovere, dovrebbero sedurre il lettore, renderlo uno schiavo devoto. Il libro, un perfetto meccanismo a orologeria che non sbaglia un colpo.
Sarà: ma anche il buon Dostoevskij ogni tanto arrancava. Non è meraviglioso? I grandi autori non erano perfetti.
Una buona scuola di scrittura non deve spiegare come confezionare il racconto perfetto; al contrario, dovrebbe proprio insegnare a usare l’occhio.
Viene impiegato male. Solleticato da immagini brutte, morbose, volgari. Invitato a osservare le cose come sono, semplicemente; la superficie è così rassicurante. Ma siamo certi che non sia necessario scendere in profondità? Anche solo ogni tanto?
Ecco il motivo per cui quando leggo che è indispensabile scrivere in maniera semplice, divento di cattivo umore.
Prima di tutto, non di rado il lettore è migliore di quanto si pensi. Inoltre, un po’ di fatica non può che fargli bene; lo so che lavora tutto il giorno, ha a che fare con la metropolitana di Roma e Milano, zeppa all’inverosimile, sporca, piena di cafoni che (se è una donna), ci provano pure. Mentre lei vorrebbe solo leggere in santa pace quel mattone, che mattone non è.
Però lo scrittore non è un aguzzino, sul serio; non gode a scrivere un incipit poco affascinante, almeno non sempre.
Lo scrittore islandese Thor Vilhjálmsson in quella che probabilmente è la sua ultima intervista, dichiara di essere stato fortunato. Perché il suo editore non era interessato al denaro. Questo ci fa comprendere come tanta letteratura possa essere distante da trucchi e strategie; eppure funzionare. Senza arrivare a grandi numeri.
Scendere nel profondo, e sprofondare il lettore in un reame dove le regole del gioco sono lontane da quelle della produttività, del consenso a tutti i costi, delle furbizie, del marketing.
Una buona scuola di scrittura dice cosa NON fare. Non divulga segreti (perché non ce ne sono), e nemmeno svela le regole nascoste; non ci sono regole (a parte quelle grammaticali, ma questo si sa).
Quello che può insegnare è appunto lo sguardo, l’occhio. La cura per i dettagli.
La musica delle parole, e il disprezzo per le stonature.
L’importanza della revisione.
La disciplina.
No, niente contratti milionari, nessuna certezza. Soprattutto nessuna certezza.