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Un cambio di prospettiva

Da Femminileplurale

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Durante un mio recente viaggio ho avuto l’occasione di confermare che, fuori dall’Italia, esiste una sensibilità diversa rispetto al ruolo della donna nella società e nella cultura.

La destinazione del mio viaggio era Parigi.

Passeggiando in non ricordo quale delle stazioni della metro parigina sono sommersa da mille messaggi pubblicitari. Ma uno in particolare riesce a catturare la mia attenzione. Titola: “Le salon du mariage et du pacs”. Probabilmente è stato quello il momento in cui ho realizzato che non ero effettivamente più in Italia.

Passeggiando ancora per la città decido di entrare in un celeberrimo museo. Collezione permanente. Mostra su Arman. Poi una sorpresa: opere che affermano più o meno direttamente la loro denuncia sociale (e non solo) ma comunque tutte lì con le loro firme. La mostra è intitolata “Elles”: raccoglie opere di tutti i generi. Donne che si occupano di pittura, scultura, architettura, fotografia, video arte, danza, cinema. Donne dalla provenienza geografica e generazionale più disparata, riunite.

Il Museo Pompidou espone opere di donne.

È interessante la differenza tra i vari atteggiamenti che esprimono le artiste nelle loro opere: c’è chi, come le irriverenti Guerrilla Girls o Orlan, reinterpreta in modo contemporaneo l’immaginario che ruota attorno alle attiviste femministe, ironizzando e giocando con il loro stesso ruolo. Denunciano una quasi totale assenza di opere di donne nelle gallerie e nei musei, e cristallizzano immagini di donne che pagano la loro notorietà di artiste attraverso la mercificazione di se stesse e del proprio corpo.

Chi, come Martha Rosler denuncia, banalizzandolo e ridicolizzandolo, l’immaginario della donna di casa in “Semiotics of the kitchen” (1975).

E Françoise Janicot che con la sua delicata ma incisiva fotografia esprime un vero e proprio senso di oppressione.

Camille Henrot, che semplicemente, attraverso una pura ricerca artistica e senza una diretta partecipazione alla questione femminile, ci fa capire che è tempo per le donne di maturare una loro autonoma dimensione, diversa da quella stereotipata della quale tutti i giorni siamo spettatori.

Donne architetto. Zaha Hadid e Benedetta Tagliabue (EMBT) che stanno ora ridefinendo gli orizzonti per quanto riguarda il loro campo.

Allo stesso modo, ci sono degli artisti (le cui opere sono incluse nell’esposizione) che riescono in modo altrettanto pungente a parlare di problematiche riguardanti l’immagine della donna. Ma forse la parola stereotipo sarebbe più adatta anche in questo caso: sono Michel Journiac e Juergen Klauke.

E ancora Sonia Delaunay, Frida Kahlo, Louise Bourgeois, Natalia S. Gontcharova, Hannah Höch , Judit Reigl, Suzanne Valadon, Diane Arbus, Dora Maar, Niki de Saint Phalle, Karen Knorr, Rosemarie Trocket, Atsuko Tanaka and Ana Mendieta, Agnes Martin, Vera Molnar, Valérie Jouve, Hanne Darboven, Jenny Holzer, Barbara Kruger, Natacha Lesueur, Cristina Iglesias, Eija-Liisa Ahtila, Matali Crasset, Alisa Andrasek, Tacita Dean, Louise Campbell, Isa Genzken, Nancy Wilson-Pajic, Geneviève Asse.

Donne spesso non note ai più, ma che hanno lasciato un’impronta poderosa nella storia dell’ultimo secolo e quella più recente.

Se non altro, eccezionalmente, ho assistito ad un rovesciamento della percentuale tra i sessi all’interno di un’esposizione.

La mostra si è posta nei miei confronti come una sorta di rassegna di una parallela storia dell’arte e della cultura e mi ha suggerito l’idea che il ruolo della donna nella storia, per come ci è stata trasmessa, sia stato pesantemente sottostimato.

Una storia che vede la donna sempre rappresentata e mai rappresentante. Abbiamo studiato secoli di storia dell’arte, insegnataci fin dalle scuole inferiori, in cui l’artista in questione è puntualmente di sesso maschile.

Questo pone una cruciale questione: quello del punto di vista delle donne, eliminato pressoché in toto. Un punto di vista che oggi la donna sente di dover proporre. O che, a mio avviso, dovrebbe sentire di dover proporre.


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