Un film da esportazione

Creato il 03 marzo 2014 da Malvino
Parlare del film di Paolo Sorrentino dopo che ha vinto l’Oscar è assai più difficile di quanto lo fosse prima. Anche prima, d’altronde, non era facile, perché sembrava fatto apposta per essere candidato a vincerlo. Non saprei dire se già nel momento in cui veniva scritto, ma certamente nel momento in cui veniva girato, era un film che rincorreva il giudizio favorevole che avrebbe dovuto darne il pubblico di cui l’Oscar esprime sensibilità e gusto. Premio meritatissimo, dunque, perché il film dimostra di aver pienamente corrisposto al fine per cui era stato concepito, con encomiabile controllo del mezzo artistico.
Di fatto, quando questo accade, il portato artistico, se c’è, diventa invisibile. Difficile afferrarlo, impossibile dire di averlo afferrato. Si resta impigliati in una battuta, in una immagine, le si dà il valore di una chiave, la si infila nella toppa, ma non si apre niente. Così, dovessi dire dove volesse andare a parare, il film, manco per niente. Affresco allegorico? Apologo morale? Elegia? Può darsi, e no. In più, non appartengo al pubblico di cui l’Oscar esprime sensibilità e gusto. Per dire, non uno dei film che mi sono più piaciuti – e parlo di Alfred Hitchcock, di Ingmar Bergman, di Orson Welles – ha mai vinto la statuetta placcata d’oro.
Non vorrei essere frainteso, però. Non dico che La grande bellezza sia stato pensato e realizzato al solo scopo di ottenere l’Oscar e ciò che il premio rappresenta in termini di profitto per l’autore e il produttore: anche per questo, ovviamente, ma in primo luogo per andare incontro al particolare genere di consenso che produce questo particolare genere di profitto. In altri termini, il film di Paolo Sorrentino non aveva alcuna aspirazione di parlare a tutti, come di solito è nelle ambizioni di un artista, ancorché velleitarie o forse, proprio per ciò, e così spesso, velleitarie: si rivolgeva a un pubblico ben preciso, anche se assai vasto, e cercava di ottenerne il consenso secondandone l’immaginario. Ancora più esplicitamente: era un film da esportazione destinato al pubblico che della città di Roma ha proprio l’idea cui la pellicola ha dato corpo in immagini.
Un film per turisti, potremmo dire, ma sarebbe ancora troppo generico. Direi fosse un film per turisti intenzionati a tornare a casa con l’idea che li aveva accompagnati alla partenza, però arricchita da un gran numero di evocazioni e rimandi, frattali della loro idea di Roma, non solo come straordinario magazzino di vestigia del passato, ma come sintesi emblematica di quell’italianità che è cifra distintiva dei più datati depliant. Non solo turisti stranieri, dunque.
Non che questa italianità sia mero prodotto letterario, tutt’altro. Prende i tratti letterari di quello che solitamente è detto carattere, ma trova rispondenza in quei luoghi comuni che gli italiani si sforzano di incarnare, anche se sempre più pigramente, per una crescente fatica che arrischia il micidiale. Le numerose citazioni felliniane in cui Paolo Sorrentino ha manifestamente cercato e trovato compiacimento avevano il solo fine di dissimulare questa fatica in una connaturata accidia. Perciò potremmo dire che l’Oscar a La grande bellezzaè un premio non solo a Paolo Sorrentino e alla sua indubbia bravura, ma anche a quegli italiani che con eroicomica determinazione sgomitano per entrare nell’inquadratura. Del tutto naturale che gioiscano del premio.

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