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Un fotografo universitario alle Paralimpiadi: Marco Sala

Creato il 07 aprile 2014 da Retrò Online Magazine @retr_online
Un fotografo universitario alle Paralimpiadi: Marco Sala apr 7, 2014    Scritto da Alessandro Antonioli    Altri Sport, Piemonte, Retròpensiero, Sport, Torino 0

Un fotografo universitario alle Paralimpiadi: Marco Sala

Marco è uno studente universitario di 22 anni, studia giurisprudenza a Torino e ama la fotografia. Ha mosso i primi passi ai diciottesimi dei suoi amici, poi ha iniziato a fare sul serio. Durante un servizio per una sfilata a Milano nel febbraio dell’anno scorso, ha conosciuto Marco Ciccolella, Laura Predolini ed Emanuele Broli, fondatori dell’associazione culturale Nessuno Press (www.nessunopress.it), e con loro è finito a Sochi in occasione delle recenti Paralimpiadi. Dal 4 al 19 marzo è volato in Russia per immortalare in uno scatto gli atleti che sfidano la loro disabilità e insegnano la bellezza della vita a chi disabile non è.

«Il primo impatto è stato piuttosto difficile – racconta – perché comunicare in inglese con volontari e addetti ai lavori non era per niente immediato; non sempre ricevevamo le informazioni corrette, al punto che ci sono volute ore, i primi giorni, per capire quali fossero i giusti mezzi di trasporto per gli spostamenti essenziali». Marco pernotta in hotel ad Adler, una piccola città sulle rive del Mar Nero, a una manciata di chilometri dal confine con la Georgia. Adler è la sede delle gare cittadine e delle cerimonie, ma le montagne del Caucaso distano una cinquantina di chilometri, che gli costano pochissime ore di sonno ogni notte. Questione di abitudine. «Una volta che entri nell’ottica e ti abitui a quei ritmi frenetici – spiega – non ne puoi più fare a meno, è adrenalina pura: con una gara che inizia alle nove del mattino e l’obbligo di essere appostati sul campo di gara almeno un’ora in anticipo, era normale doversi alzare anche alle cinque. Ho sempre vissuto giornate densissime, con un evento dopo l’altro (anche due o tre ogni giorno), fino alla sera quando si seguivano i match di sledge hockey (hockey su slittino, ndr). Il tempo di scaricare le foto, farsi una chiacchierata con gli altri fotografi davanti ad una birra: in un attimo sono già le due di notte. Ho dormito pochissimo ma ero felice, avevo una grande carica ogni mattina e il coinvolgimento era davvero totale»

Della cerimonia inaugurale delle Paralimpiadi, Marco ricorda con grande emozione un particolare. Stanno sfilando le varie delegazioni, gli atleti escono dalla pancia dello stadio guidati dai rispettivi portabandiera, lo speaker chiama l’Ucraina: il momento è delicato, la situazione politica non è certamente delle più semplici. Si presenta il solo portabandiera ucraino in carrozzella, accolto da un boato assordante di supporto ed incoraggiamento. «C’era quasi più tifo per lui che per l’intera squadra di casa – confessa – è stato un bell’assaggio del clima olimpico, un benvenuto sorprendentemente caloroso e del tutto inaspettato»

Arrivano le prime impressioni. Marco me le illustra velocemente, come delle istantanee. «Gli stadi e il villaggio olimpico erano sfavillanti, ma si aveva la sensazione che quello all’esterno fosse un ambiente artificiale, creato dal nulla apposta per la vetrina sportiva internazionale di quel mese e mezzo. Senza un’anima e senza una storia da mettere in mostra. Un’immagine di facciata, a tratti: stralci di cantieri ancora a cielo aperto, ossature e muri portanti di padiglioni avvolti in teloni pubblicitari. Krasnaya Polyana, il piccolo villaggio caucasico alla base degli impianti per le gare in montagna, sembrava creato ad hoc: un fiume, una via pedonale su entrambi i lati, e poi i grandi alberghi di catene internazionali e i negozi in palazzi senza un perché. La piazza con il palco per la cerimonia di consegna delle medaglie e nient’altro, soltanto i versanti boscosi della collina (chiamarla montagna è arduo) che, per nulla imbiancati, si sviluppavano simmetricamente verso l’alto». Anche le temperature erano proibitive, tanto che il caldo primaverile ha spesso obbligato i responsabili delle piste a fare gli straordinari per preparare al meglio la neve. Chiedo a Marco uno zoom sull’accoglienza della gente del posto: ad Adler ha percepito davvero poca partecipazione, i cittadini locali vivevano la loro vita come se non stesse accadendo niente di straordinario.

Finalmente arriva il flash che illumina la scena, seguito dalle foto più significative. Marco viaggia con la mente a Italia-Svezia di sledge hockey, partita che vale l’accesso alla finale per il quinto posto. Gli azzurri, unica squadra tra le otto del torneo composta da giocatori non professionisti, sono sotto di due gol al termine della seconda frazione. Spinta dal pubblico, l’Italia inizia la rimonta. Il primo gol, firmato da Gianluigi Rosa, arriva dopo soli tre minuti dall’inizio dell’ultimo tempo. La squadra ci crede, non molla, continua a lottare. Si gioca ad una porta sola ormai, è un assedio. A meno di tre giri d’orologio dal fischio finale, Gregory Leperdi segna il gol del pareggio e regala ai suoi compagni la chance dei tempi supplementari. Golden gol, chi segna vince. È il delirio, l’incitamento per gli azzurri è alle stelle. Durante il break, mister Da Rin predica calma e concentrazione, ma di fronte ha delle furie. Azioni precise, di chi non ha fretta ma vuole chiudere i conti. Gianluca Cavaliere trova il varco giusto e insacca, l’Italia completa la rimonta e porta a casa l’impresa. È un’emozione unica. «Io seguivo il match dalle tribune – ricorda Marco – l’emozione ed il coinvolgimento erano incontenibili, andavo avanti a scattare ma senza far più caso all’inquadratura, i miei occhi erano gonfi di lacrime e il mio sorriso incancellabile. È nel cuore che ho la foto più bella. Ci sono alcuni momenti in cui lo scatto non ha più importanza: il minimo che puoi fare è appoggiare la macchina a terra, lasciarti trascinare dall’emozione e vivere quell’istante per ricordarlo per sempre»

Le foto si moltiplicano, Marco si appassiona sempre di più mentre mi mostra i suoi scatti. Quelli degli atleti ipovedenti, per esempio. In discesa libera, prima: a più di 100 all’ora su muri verticali senza vedere la neve sotto i propri sci, li ha sentiti incitare le proprie guide a non rallentare. «Push!». Fiducia assoluta, e non potrebbe essere diversamente. Nello sci di fondo, poi: qui il sacrificio, lo sforzo fisico sono in un certo senso più tangibili. Ecco il ricordo: «sono gli ultimi secondi di gara, quelli nei quali la guida si fa da parte dopo aver incitato per un’ultima volta il compagno di squadra alle ultime spinte prima del traguardo. “Sono gli ultimi metri, sono tuoi!” Parole che lasciano il segno, gesti che rivelano una complicità specialissima»

Marco è un fiume in piena, gli aneddoti si susseguono, gli occhi brillano. A un certo punto però si ferma, ci tiene a spiegare un concetto che gli sta particolarmente a cuore. «Io non sono partito per la Russia con l’intenzione di fotografare la disabilità. La mia speranza è stata, da subito, quella di poter riuscire a congelare in uno scatto il gesto atletico puro e semplice: io sono andato in Russia con il desiderio di portare a casa fotografie di sport, non fotografie di atleti disabili. Ho cercato l’atleta, non il suo “difetto”, il gesto tecnico e non la protesi, senza imbarazzo e senza esitazione». La disabilità non deve, non può far pena o suscitare compassione. Fanno riflettere anche le parole del dott. Massarini, medico dello sport e fondatore del centro Vitalia (www.vitalia-informa.it): «Nello sport paralimpico bisogna essere enormemente abili. Bisogna aver raccolto le abilità rimaste ed averle innalzate ad un livello supremo». È una questione di approccio e di mentalità. «Ho voluto celebrare l’impresa dell’uomo e della donna che vanno oltre i loro limiti, anche e soprattutto fisici, e non invece il loro limite. Mi è spiaciuto molto – commenta amaro Marco – che in Italia sia stato dato pochissimo risalto mediatico ad un evento straordinario come questo: negli Stati Uniti, per fare un esempio, al termine dei Giochi tutta la delegazione è stata ricevuta dal Presidente Obama alla Casa Bianca. In più, gli atleti delle varie discipline sono beniamini locali al centro di campagne di sensibilizzazione straordinarie». Da noi si può dire la stessa cosa?

«La cerimonia di chiusura – riprende Marco – è stata splendida. Coreografie coloratissime, musica moderna e coinvolgente, il passaggio del testimone a Pyeong Chang (Corea del Sud), sede dei prossimi Giochi nel 2018, le parole di ringraziamento del Comitato e l’abbraccio dei volontari. Poi, il segmento clou dello spettacolo: la trasformazione di “Impossible”, parola formata da lettere colossali sospese al centro dello stadio, in I’m Possible”. È il messaggio di queste Paralimpiadi, il riassunto della storia di ogni atleta che vi ha preso parte. Dire da brividi è dire poco»

Marco sorride, è tornato davvero arricchito da questa esperienza. Mi saluta con un’ultima storia, un’ultima provocazione. «Una sera a cena con gli altri fotografi si parlava di Francesca Porcellato, donna e atleta straordinaria tra gli azzurri del fondo». Paralizzata dal bacino in giù a causa di un incidente quand’era molto piccola, “la Rossa Volante” è una delle poche atlete ad essersi laureata campionessa paralimpica sia ai Giochi estivi (nell’atletica leggera) sia a quelli invernali. «Un concentrato sorridente di forza di volontà, grinta ed entusiasmo. Nel sentire la sua storia, ho pensato che non osavo neanche immaginare il rimpianto di non poter camminare per tutta la vita. “Non fare l’errore di pensare così”, mi hanno risposto. “A vivere in quest’ottica si muore ogni giorno. Non pensare a come sarebbe la tua vita se potessi camminare, ma pensa piuttosto a come puoi vivere al meglio ogni giorno con i mezzi che hai, con quello che sei in questo momento”». Questa è la vera sfida, questa è la vita vera. Questo è quello che insegnano le Paralimpiadi.

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