Ringraziamo Gaspare Sciortino per questo importante contributo alla conoscenza di uno dei Paesi dell’Africa più martoriati dall’Occidente. L’architetto Sciortino ha realizzato in Etiopia un importante Centro culturale, nel quadro dello sviluppo dei Paesi del Sud del mondo, finanziati dal Ciss.
Harar, donna etiope (foto di Gaspare Sciortino)
Quando per tutto l’arco dell’800 si manifestò il fenomeno delle esplorazioni del continente africano, chi si trovò a percorrere i misteriosi sentieri degli altopiani del Corno d’Africa probabilmente non sospettava che da lì a poco, ed in pochi anni, si sarebbe prodotto un mutamento che nella storia africana vale quello di parecchi millenni.
L’impatto tra il capitalismo borghese-liberale di tipo euro-anglosassone, di cui questi esploratori erano, consapevolmente o no, agenti, e la dimensione di sussistenza legata all’allevamento, al carattere nomade, o agricolo dei popoli dell’altopiano etiope, in una parola al modo di produzione “domestico”, avrebbe innescato il seme di una vasta accumulazione primaria pre-capitalista che significherà la dipendenza economica e l’inizio dell’epoca della fame e delle carestie.
La civiltà stanziale fino ad allora, nella storia dell’Etiopia, conosceva ben pochi esempi e tutti nati in conseguenza di un sistema di produzione che assicurando un sovrappiù, al di fuori dallo smaltimento per i bisogni immediati, costituirà le basi per la produzione mercantile e conseguentemente per la nascita delle città.
Harar, nel sud est dell’Etiopia, ne era l’esempio più antico, ma per ragioni di carattere geografico, etnico e religioso, entrerà a far parte molto tardi della storia della nazione etiope; per il resto solo importanti santuari, come Lalibela, Axum, i monasteri delle isole del lago Tana, oppure Gondar intorno al 500, la più grande e antica capitale dell’Abissinia storica.
I popoli dell’altopiano fino ad allora non avevano costruito città ma insediamenti temporanei e provvisori legati all’andamento della ricchezza dei suoli. Il tipo di insediamento diffuso era quello dei villaggi tribali costituiti da tukul, cioè dalle tipiche costruzioni cilindriche in cikka (terra cruda) con i tetti in paglia.
Tali villaggi vivevano in rapporto di autosufficienza alimentare con le foreste e i territori adiacenti e si può senz’altro affermare che il tipo di insediamento e il sistema produzione e riproduzione non doveva essere dissimile da quello ancora assai diffuso in vaste aree del sud del paese; vere e proprie “enclave” autoprotette, che permangono accanto all’avanzare della modernità nei (pochi) centri adiacenti.
Fino alla fondazione di Addis Ababa la nazione abissina, cioè sostanzialmente la regione storica del centro nord, popolata prevalentemente dai tigrini, amhara e scioani (rispettivamente Tigray, Goggiam-Beghemender, Scioa) e in seguito del centro sud, popolata dai “galla”, gli ex schiavi dei territori dell’Oromia cooptati con ruolo subalterno tra le etnie dominanti, aveva conosciuto solo i “ketemas”, cioè piccole città che si erano sviluppate a ridosso di guarnigioni militari.
In tali condizioni protette, e nei casi di possibilità di commercializzazione del surplus della produzione delle campagne, si erano sviluppati piccoli mercati come condizione necessaria per lo sviluppo dell’agglomerato urbano.
Vari erano stati i motivi che avevano impedito la costruzione di vere città fino a quel punto:
il carattere nomade del gruppo predominante (la corte dell’imperatore) che razziava di volta in volta un territorio delle sue risorse alimentari ed energetiche (legna da ardere) fino al suo impoverimento al punto da renderne necessario l’abbandono;
la guerra costante tra capi tribù rivali che accentuava la condizione nomade e l’avvicendamento continuo tra i gruppi dominanti rendendo instabile qualsiasi agglomerazione urbana;
il lungo scontro, dal 1300 al 1700 circa, tra i popoli e le civiltà arabo-islamiche, provenienti prevalentemente da est (Harar) e la penisola arabica, e i popoli di origine cristiano-copta (Habesha) del centro nord;
la grande migrazione nel sedicesimo secolo degli Oromo (Galla) da sud-est verso la regione centrale dell’altopiano etiope;
l’alternanza dell’etnia predominante, dove veniva prescelto il Re dei Re (Negus Neghesti), tra Scioani, Tigrini e popolazioni del Goggiam, al seguito di lunghi scontri di successione;
infine l’aggressione straniera: turchi, dervisci, egiziani, italiani.
Si potrebbe dire che la nascita di Addis Ababa segni l’ingresso dell’Etiopia nella “modernità” e quindi nel sistema economico globale regolato dal conflitto geopolitico tra la predominante potenza britannica e gli antagonisti Francia, Germania e Russia.
La dimensione di stallo e fronteggiamento tra le potenze nel Corno d’Africa verrà a creare una dimensione di “interregno” che finirà per favorire il nazionalismo delle aristocrazie feudali etiopi, guidate dall’abile e astuta politica di alternanza nelle alleanze da parte di Menelik II, e la contemporanea affermazione di un protagonismo abissino imperialista a carattere regionale.
A quella data, ai primi del ’900, anche i settori del capitalismo tecnologicamente più avanzato, ovvero quello dei “cartelli” monopolistici dei trasporti su strada ferrata, faranno la loro comparsa nel continente etiopico. La prima e unica ferrovia mai costruita nel paese fu quella che collegava Addis Ababa con il porto francese di Gibuti, e venne realizzata con una concessione francese.
La nuova capitale etiope nascerà per effetto della grande vittoria politica ottenuta dall’imperatore Menelik II, sconfiggendo militarmente gli italiani ad Adua nel 1896, che consacrò la vera nascita dello stato etiopico come entità politico militare capace di affermare una potenza a scala regionale.
Addis Ababa nasce attorno al suo grande mercato all’aperto, il più vasto e ricco di tutto il continente africano, al centro dei canali di traffico strategici rispetto al Golfo Persico e l’Oceano Indiano,
al Mediterraneo attraverso il canale di Suez, aperto nel 1869, e il Mar Rosso.
Sarà il più importante centro di smistamento, aperto al mondo, dei prodotti e delle ricchezze di immensi territori africani dell’entroterra “misterioso e selvaggio”.
Inghilterra, Francia, Germania, Russia e Italia, con la costruzione degli edifici delle proprie legazioni, sanciranno lo status eccezionale, per una città africana, di capitale mondiale che avrebbe anche vantato, alla fine del primo conflitto mondiale, anche il proprio seggio presso la “Società delle Nazioni”.
Troppo lungo in questa sede analizzare i motivi di ordine storico e politico per i quali toccherà in sorte proprio agli italiani “colonizzare” il Corno d’Africa. Basti soltanto, per il momento sapere che il Corno d’Africa comincia ad essere visto, da una parte del ceto aristocratico-borghese e risorgimentale italiano, come il luogo del compimento di un “destino” di unificazione di terre e “genti diverse ma unite da una comune radice di storia e cultura che parte proprio dal Mediterraneo”.
Il missionario ed esploratore Giuseppe Sapeto con l’acquisto, nel 1869, del porticciolo di Assab nella futura colonia Eritrea, per conto della Società di navigazione Florio-Rubattino (in realtà sin da subito copertura degli interessi del regno d’Italia) sarà uno dei primi costruttori di tale “destino”.
Motivi di opportunità politica legati ai “favori” dei nostri dominanti di riferimento, gli inglesi, porteranno per successivi tentativi l’Italia ad occupare lo scacchiere d’interesse del Corno d’Africa in funzione antifrancese.
Quando l’insieme informale di suggestioni culturali, alla base del colonialismo liberale, diverrà un’ideologia ben strutturata e parte fondamentale del progetto di prosecuzione del Risorgimento fuori dai confini della Nazione, Curzio Malaparte, giornalista al quale il Corriere della Sera affida il compito di produrre un reportage sulla colonia più importante dell’impero dell’ A.O.I. affermerà che …”Chi percorresse l’altopiano abissino, le alte terre degli Amara, senza accorgersi di porre il piede sullo stesso substrato storico, sociale e morale sulla quale è fondata la civiltà cristiana d’Europa, (o meglio, attraverso Bisanzio, Gerusalemme e l’Arabia, la civiltà dell’Europa mediterranea), non potrebbe capire che dal punto di vista storico e morale, l’Etiopia è già matura per servir da fondamento alla creazione di una grande Civiltà Bianca, né potrebbe, perciò, rendersi conto dell’enorme importanza che il suo possesso rappresenta non soltanto per l’Italia ma per il destino della civiltà bianca in Africa e nel prossimo Oriente. Poiché non si tratta di far dell’Impero una copia “coloniale” dell’Italia: bensì un paese assolutamente nuovo, che avrà senza dubbio in tutta l’Africa e nel bacino del Mar Rosso, se non forse più oltre, la stessa funzione dell’America del Nord nell’Atlantico e nel Pacifico, e del Giappone nell’Asia estrema. (Curzio Malaparte, “Città d’Impero bianco”, Corriere della Sera 13 maggio 1939)
A queste affermazione, che corrispondono al substrato ideologico funzionale al progetto di “colonizzazione demografica” del fascismo (per la verità soltanto avviato in Etiopia, al contrario della Libia dove raggiunse traguardi ben più avanzati), fanno eco gli studi archeologici, storici e architettonici (1939) di Alessandro Augusto Monti Della Corte e Lino Bianchi Barriviera sulle chiese di Lalibela scavate nella roccia (e l’insediamento dei castelli “portoghesi” di Gondar, la storica capitale cinquecentesca degli abissini) tendenti a dimostrare con motivi di ordine storico, archeologico e architettonico le ragioni di una predestinazione italiana al possesso dell’Impero d’Oltremare.
Si sceglie di restaurare il centro di diffusione, del 400 d.C., della cristianità in terra abissina.
Si celebra la “radice cristiana”, mediterranea, trasportata in terra abissina dal suo nucleo originario di cristianesimo greco bizantino, diventato copto in Egitto, nutrito, al passaggio verso la sorgente del Nilo Azzurro, dal culto di Iside.
Ma non meno importante sarà, per gli ideologi del colonialiamo italiano, la “scoperta” della permanenza dell’influsso culturale delle genti della penisola arabica. Questo retaggio era del tutto evidente per chi avesse percorso al seguito delle truppe di occupazione la direttrice di penetrazione da Assab e Massaua, nel Mar Rosso, lungo Axum – Adua.
Ciò non deve stupire più di tanto. E’ una costante della politica del ventennio la ricerca dell’amico alleato nei territori stranieri dell’Africa Orientale e nelle regioni limitrofe,quando le contraddizioni con l’Inghilterra segneranno i punti di massimo attrito. E le popolazioni di origine arabo-islamica costituiscono la maggioranza della popolazione delle colonie inglesi.
Contemporaneamente è utile precisare, a scanso delle troppe falsificazioni storiche fatte in tal proposito, che non viene quasi mai disdegnato, per lo meno fino alla promulgazione delle leggi sulla razza, il contemporaneo dialogo con il Sionismo nascente che più di una volta si farà latore della richiesta allo stesso Duce di essere garante del nuovo stato ebraico nella vicina regione del Medio Oriente.
Cultura e propaganda “liberalfascista” verranno a narrare la (ri)scoperta di una civiltà molto antica a fronte di una dimensione odierna ancora selvaggia, ma nella quale possono essere messi a dimora i semi di una nuova grande civiltà.
Così gli ideologismi del “classicismo neoromano e mediterraneo”, presi a pretesto dagli intellettuali del razionalismo architettonico per sperimentarsi nella forma della città libica, “sintesi” d’incontro con la civiltà arabo islamica “anch’essa derivazione del grande impero di Roma”, in Etiopia prenderanno a pretesto la “radice greco cristiana e quindi pur sempre romana”.
Naturalmente nel territorio etiope, nel quale gli agglomerati urbani non hanno una grande rilevanza d’insediamento, saranno lasciati molti più margini di libertà espressiva senza la mediazione delle forme di “mimesi” con l’architettura esistente: il “costruttivismo” keynesiano fascista degli anni ’30 sarà molto più “romano” in Africa orientale che non in Libia.
Il concetto di “impero bianco” venne anticipato con minori ipocrisie ed edulcorazioni intellettuali da altri poco avvezzi alle “romanticherie dei colonizzatori da salotto”.
Scriveva Ferdinando Martini , governatore dell’Eritrea ed ex ministro delle colonie, nel 1895: “…Chi dice s’ha da incivilire l’Etiopia dice una bugia o una sciocchezza. Bisogna sostituire razza a razza: o questo o niente…All’opera nostra l’indigeno è un impiccio. Bisogna rincorrerlo, aiutarlo a sparire, come altrove le Pelli Rosse, con tutti i mezzi che la civiltà, odiata da tutti per istinto, fornisce: il cannone intermittente e l’acquavite diuturna. I colonizzatori sentimentali si facciano coraggio: fata trahunt, noi abbiamo cominciato, le generazioni a venire seguiranno a spopolare l’Africa dai suoi abitatori fino al penultimo. L’ultimo no: lo addestreremo in collegio a lodarci in musica, dell’avere, distruggendo i negri, trovato finalmente il modo per abolire la tratta” (Ferdinando Martini, Nell’Africa italiana; impressioni e ricordi, Treves, Milano 1895).
“Abolire la tratta” ! Ferdinando Martini fa qui riferimento ad un leitmotiv che successivamente verrà agitato dalla propaganda di regime e tornerà utile in sede di “Società delle Nazioni” quando l’Italia, nel ’35 , unilateralmente, decide di occupare l’Etiopia.
Abolire la tratta degli schiavi…dal momento che il sistema feudale etiopico faceva largo uso del “lavoro coatto”. Per altro proprio in sede europea era stato da non molto tempo stigmatizzato il “sistema schiavistico” in terra d’Africa.
Un po come oggi si va ad esportare “democrazia e civilta” presso i paesi politicamente ed economicamente non assoggettati alla potenza predominante !
Solo gli effetti del secondo conflitto mondiale, uniti ai “costi umani” della guerra d’Africa, comincieranno a fare breccia nella retorica.
Poche battute del soldato Ennio Flaiano in Africa Orientale”…Ma sì, l’Africa è lo sgabuzzino delle porcherie, ci si va a sgranchirsi la coscienza” (Ennio Flaiano, Tempo di uccidere)
La fine della retorica coloniale comincia a lasciare spazio, a fatica, alla ricerca sugli “effetti collaterali” dell’occupazione italiana.
L’altra faccia della medaglia “dell’Impero Bianco” nell’Africa Orientale, quella inconfessabile e prevista perfettamente da Martini, le circa 200.000 vittime tra soldati e civili etiopi dei quali un rilevante quantitativo “gasati” con iprite e fosgene da parte delle colonne d’occupazione di Badoglio e Graziani.
Parlare dell’Etiopia odierna significa parlare essenzialmente di ciò che avviene nella sua capitale vero cuore politico e motore economico dell’intero paese.
Addis Ababa, all’inizio del III millennio, è dominata dall’oligarchia tigrina del presidente Meles Zenawi.
Meles è l’ex leader del Fronte di Liberazione del Tigray che, in alleanza con il Fronte Popolare di Liberazione Eritreo di Isaias Afewerki , alla fine di una lunga e sanguinosa guerra civile tra gli anni ’80 e l’inizio del ’90, sconfisse il regime filosovietico del Derg e costrinse alla fuga il suo presidente Menghistu Haile Mariam. Uno dei primi capovolgimenti dei rapporti di forza in Africa al seguito del crollo dell’URSS e dell’instaurazione del nuovo sistema geopolitico globale.
Vent’anni fa, gli attuali leader dell’Etiopia e dell’Eritrea, con quel conflitto condotto da alleati, avevano trovato un’intesa per una separazione consensuale tra le due ex colonie italiane.
Di fatto oggi all’Etiopia è stato affidato il compito di “gendarme” contro “gli stati canaglia”, della vecchia dottrina Bush, ben piantato proprio al centro di un settore strategico.
Nell’aereoporto meridionale di Arba Minch sono istallati i potenti droni “Reaper” forniti dall’amministrazione americana.
Il Negus Neghesti è diventato il gendarme dell’Africa Orientale ma non senza contraddizioni che cominciano a manifestarsi da qualche anno nel rafforzamento del rapporto di interscambio con i colossi cinese e indiano.
Ad Ovest dell’Etiopia c’è il Sudan di Bashir, ricco di petrolio e nell’orbita degli interessi strategici della Cina. Non a caso recentemente gli USA hanno fomentato la separazione del Sud Sudan al fine di infliggere un colpo letale alla strategia cinese sancita a Bandung nel lontano 1955.
Da quella data il colosso asiatico ha inteso stravolgere la tradizionale strategia di approccio alle risorse africane tipica delle potenze occidentali.
La Cina si mostra del tutto disinteressata alla natura politica dei governi con i quali stipula contratti di partnership al fine di acquisire le risorse primarie (petrolio ecc.), mentre l’approccio americano continua ad essere mediato essenzialmente dal fattore politico dell’adesione al modello di democrazia occidentale ed al livello dei diritti umani, cui gli USA si ergono a misuratori unici mondiali e giudici sanzionatori anche attraverso “guerre umanitarie”.
La Cina, viceversa, scambia tecnologie contro materie prime e non interviene all’interno della sfera politica. A distanza di 50 anni da Bandung tale approccio, molto apprezzato generalmente in territorio africano, è diventata la vera forza di penetrazione economica cinese.
A nord dell’Etiopia c’è il piccolo stato eritreo di Isaias con il quale l’Etiopia è in guerra dal 1998, poi conclusa nel 2000, con un trattato di pace sottoscritto ad Algeri ma mai ratificato.
Si potrebbe dire che l’Eritrea costituisce un problema non risolto sin dalla nascita della moderna nazione.
Pragmaticamente Hailè Selassiè, nel ’41, con il favore del protettorato inglese sull’ex colonia italiana, annettè l’Eritrea. Oggi l’Eritrea è considerata dall’Etiopia uno dei principali finaziatori della guerriglia somala e oromo. L’Eritrea, come il Sudan e la Somalia è a maggioranza musulmana.
Infine a sud esiste il problema della Somalia.
Un conflitto che trascinandosi dagli anni ’70, in quel periodo vedeva contrapposti i due stati “socialisti” di Siad Barre e Menghistu.
Al seguito del fallimento della mediazione tentata da Fidel Castro in persona, l’Urss scelse di privilegiare l’alleato etiope (Menghistu) e la Somalia si affidò all’orbita USA e italiana.
Negli anni 90 il fallimentare intervento dell’esercito Usa in Somalia creò la recrudescenza del fenomeno delle “corti islamiche” e il rinfocolare del separatismo delle regioni abitate da popolazione somala in territorio etiope.
Oggi c’è chi giurerebbe che al centro della strategia della pirateria somala nel Golfo Persico c’è una politica di logoramento dei traffici commerciali cinesi nell’area. Non a caso la Cina ha rafforzato la presenza della propria flotta militare nell’area.
Addis Ababa- Algeria street (foto Sciortino)