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Un’inesorabile realtà, di Andrea Sartori

Creato il 17 febbraio 2011 da Fabry2010

Un’inesorabile realtà, di Andrea Sartori

Il primo romanzo di Lara Santoro – Il mio cuore riposava sul suo, traduzione dall’inglese di Adele D’Arcangelo, Roma, e/o, 2009 – non appartiene al filone di certa letteratura esotica, che sfrutta lo scenario del continente africano per ambientarvi storie d’amore e avventura. La giornalista d’inchiesta Anna, i suoi amanti Nick e Michael, la domestica africana Mercy e padre Anselmo, tracciano le traiettorie di una storia che si dipana tra gli slums di Nairobi, le atmosfere decadenti e ancora coloniali dei party d’ambasciata, l’arida terra spaccata del Sudan, il califfato petrolifero di Nigeria, le stanze d’albergo d’una Belgrado che ospita i sicari del genocidio bosniaco, senza mai cedere alla strizzata d’occhio della bella cartolina di viaggio proveniente da terre lontane.
Il libro della Santoro è piuttosto la prova di una religiosità aspra, pugnace e senza sconti: un romanzo d’accettazione e di rivolta, di follia e di redenzione, di fede e di perdizione, che non cessa d’interrogarsi sui limiti della parola e sulla necessità di superarli con il gesto e la partecipazione. La religiosità che trapela da queste pagine, è lontanissima dall’essere quel sentimento di fede in un mondo ultrasensibile, che la ragione illuministica ha buon gioco a classificare come superstizione, vuota fuga in un altro mondo che compensa le storture intramondane, mortificando il qui e ora.
Mortificanti sono invece i raduni isterici e violenti che le sette come la Legione di Maria organizzano a Korogocho, la poverissima periferia di Nairobi, per scacciare, a furia di bastonate e con il consenso delle locali gerarchie ecclesiastiche, il demone dell’AIDS dai corpi degli ammalati. Tutt’altra cosa sono il bisogno di verità dell’alcolista Anna, il coraggio al limite dell’incoscienza del cocainomane Michael e del suo cameraman Kez, la vitalità disperata e non priva di ombre di Mercy, la fede del comboniano Anselmo, della quale il religioso stesso dice, rivolgendosi alla giornalista: «Perdo la fede, sai. Due o tre volte al giorno perdo la fede in Dio. Se non fosse per la loro fede, quella che vedo ardere nei loro occhi, sarei diventato un ateo farneticante anni fa. La loro fede tiene in vita la mia». È la fede infantile dei diseredati e degli abbandonati, sempre pronta ad accendersi al suono di qualunque sirena – anche a quella delle famigerate “messe” sull’AIDS – a tenere vivo in un uomo come padre Anselmo il senso d’una missione, il pulsare irrequieto della carità. Non a caso Anselmo è l’unica guida spirituale dalla quale l’inaffidabile Anna impara, col tempo, a farsi orientare. È proprio lui a dire che la grazia di Dio non si trova in abissali regioni del cielo nascoste all’umanità, ma là dove essa sembra latitare: «Sai, comincio a capire che tutto si muove attraverso la grazia di Dio. Con tutto non mi riferisco a qualche astratta cosmologia, le cui leggi invisibili, di tanto in tanto, diventano chiare all’occhio umano. Con tutto intendo tutto». Nella presenza del dolore, da cui ogni consolazione sembra bandita, la grazia traluce quale accettazione disumana dell’umana sofferenza. La grazia è la medesima cosa del perire e del soffrire, del gesticolare e dello strepitare in questo mondo, è accettazione di una realtà inesorabile, a cui è impossibile sfuggire. Una realtà che in Africa assume il volto potente, inequivocabile, della miseria, del corpo infantile denutrito, della disperazione senza riscatto: «L’Africa è un luogo di realtà inesorabili». Proprio perché l’Africa non consente di eludere la realtà, proprio perché inchioda all’ora del dolore e dell’assenza di scampo, essa è un continente che tracima di Dio in ogni sua crepa, in ogni sfumatura di colore: «Com’è che questa terra è così piena di Dio? Forse perché qui c’è così tanta miseria, così tanto bisogno di grazia, di carità».
Nessuno dei personaggi del romanzo di Lara Santoro è esente da qualche tara, da qualche peccato, a partire dalla struggente Mercy, che è stata la letale spacciatrice di muratina nei sobborghi senza pace di Nairobi. Se è lecito parlare di un afflato mistico, che serpeggia in questo romanzo, esso è riconducibile a un misticismo della miseria, a cui neppure la giornalista occidentale Anna si sottrae. Anche lei, infatti, può comprendere qualcosa dell’Africa se si pone in ascolto del lembo più oscuro del proprio animo, quello che l’accompagna come un’ombra di follia sin dagli anni della prima giovinezza, e che la porta a dilaniarsi tra il contraddittorio amore per il dandy Nick, e la passione per il rude e viscerale Michael.
L’accettazione della realtà, e contemporaneamente della parte più oscura di sé, non comportano tuttavia d’accedere come per magia a una condizione di quiete interiore, di irenica conciliazione con il mondo e le sue dannazioni. Non è lecito, non è mai lecito, cessare di patire lo scandalo dell’assenza di salvezza in questo mondo, l’inaudito della condanna dei corpi alla morte. Per questo Anselmo rischia di apparire più di una volta cinico agli occhi di Anna. Egli è il primo a non fermarsi accanto ai fossi di Korogocho quando incontra qualcuno stroncato dalla muratina. Il padre comboniano infatti sa che non tutti, in questo mondo, possono durevolmente essere salvati. Il male, qualunque cosa esso sia, tracima da ogni argine, e vanifica l’esemplarità della bella azione, del gesto meramente edificante. Dice Anselmo: «I soldi che mi dà il Vaticano bastano per sfamare, curare e seppellire circa cinquanta persone al mese. A Korogocho vivono cinquantamila persone, un terzo delle quali stanno morendo di AIDS, e a tutte manca da mangiare».
Come salvare tutti? Come fornire una seconda possibilità a tutti? Anna ben presto impara che la dura legge della realtà non fa eccezioni, e che il sogno d’un riscatto senza distinzioni non esime dal soffrire la perdita insensata di decine e decine di migliaia di vite umane. Sino a questo punto si spinge l’accettazione; fino a qui giunge la dimensione pragmatica – che tuttavia non cessa d’essere utopica – della fede.
Utopia, d’altra parte, non è attesa inerme d’un capovolgimento delle logiche criminali e sfruttatrici che depredano della speranza intere aree del pianeta. L’utopia è, gnosticamente, una mutazione dello sguardo, un sussulto dell’istinto di conoscenza, la conquista, in consapevolezza, della capacità di considerare umano il prossimo, e di agire di conseguenza. Anna, con l’aiuto di Anselmo, se ne rende conto allorché, intervistando impaurita Arkan, signore della guerra serbo, giunge ad avere chiaro quali sono «i segnali della deviazione», le impercettibili traslitterazioni di senso che rendono criminale un uomo, una creatura tra le creature. Propriamente, il male – benché diffuso ovunque – non esiste, essendo piuttosto una cecità dell’intelletto e delle emozioni, che spinge a non vedere il volto dell’altro, di questo «altro» accanto a me eppure a volte lontanissimo dal mio sentire. Arkan, quando uccideva, non vedeva nessuno – è lui stesso a confessarlo alla giornalista.
Intervistando il male, Anna s’accorge che dolore e sofferenza, morte e uccisione sono la conseguenza d’un difetto di «comprensione». Quest’ultimo non mette nessuno nella posizione di poter giudicare. Non v’è un colpevole mostruoso che stia , fuori dal consesso degli umani, né v’è una natura malvagia che s’accanisca contro i più sfortunati. La possibilità di «vedere» è data a chiunque, in qualunque momento, ma soprattutto in prossimità del punto più basso, oltraggiato, della propria esistenza. Ognuno di noi, nel momento propizio, può tirarsi fuori dall’aporia del male, della connivenza criminale, apprendendo dall’altro la sua umanità.
È ciò che accadrà a Mercy – Mercy è il titolo originale del romanzo – quando ella ritornerà, metaforicamente ma non troppo, dal regno dei morti, caricata da una passione per la guarigione e la salvezza, da mettere al servizio di una trascinante iniziativa per il riscatto di tutte le donne africane.



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