Non potrò mai dimenticare la prima volta in cui ho letto Banana Yoshimoto (per la precisione Kitchen, il suo primo romanzo, che in appendice conteneva il racconto che è stato la tesi di laurea dell’autrice, intitolato Moonlight shadow come la celebre canzone).
Copertina dell'edizione Feltrinelli
Sul calendario l’inverno stava finendo, ma faceva ancora freddissimo e nell’aria gelida di Urbino non c’era alcun sentore di primavera. Quella notte ero sola in casa, le mie coinquiline erano già tornate andate via per le vacanze di Pasqua, io invece ero stata costretta a trattenermi un paio di giorni in più per registrare un esonero. Infreddolita e malinconica, già alle dieci mi misi sotto il piumone con il gatto Giannetto accanto, la tv accesa in sottofondo (non l’ascolto quasi mai, ma se sono sola la lascio accesa per illudermi di avere compagnia) e ovviamente un libro in mano. Era "Kitchen", appunto, e lo divorai nel giro di qualche ora. Quando arrivai al racconto in appendice, si era ormai fatta notte fonda. Avevo sonno, ma la curiosità era forte… poi lessi l’inizio (la parte che riporto qui sotto) e non riuscii più a fermarmi. Questo racconto mi fece piangere moltissimo. È incredibile come la Yoshimoto riesca a rendere il dolore palpabile, a trasmetterlo al lettore proprio come se fosse lui stesso a provarlo. Sarà stata la fragilità di quell’ora tarda o la solitudine di quei giorni, ma ne ricavai un’impressione fortissima. Sperai ardentemente che un dolore del genere non mi sfiorasse mai, ma non fu così; tocca a tutti, prima o poi, avere a che fare con la perdita della persona amata. E allora puoi solo scriverti il suo nome sul cuore e andare avanti, accettare di cambiare perché è inevitabile. Peccato che col tempo Banana Yoshimoto mi sia scaduta – tutti uguali i suoi libri, e sempre più banali! –, peccato davvero perché la notte in cui l’ho letta per la prima volta non la scorderò mai."Hitoshi andava in giro con un campanellino attaccato al portatessera, non se ne separava mai. Era un piccolo dono che gli avevo fatto quando non eravamo ancora innamorati. Non aveva nessun significato particolare, ma lo portò con sé fino all’ultimo. Lo conobbi in seconda liceo, anche se era di un’altra classe, perchè, come me, era tra gli organizzatori della gita scolastica di quell’anno. Il programma era diverso per ogni classe, facemmo insieme solo il viaggio di andata in treno.
Sul binario, riluttanti a separarci, ci stringemmo scherzosamente la mano. Fu in quel momento che mi ricordai per caso di avere in una tasca della divisa un campanellino caduto dal collare del gatto. Glielo diedi dicendo: ‘Un regalino d’addio’. Lui rise e fece: ‘Che roba è?’, ma con grande cura lo avvolse nel fazzoletto come se si trattasse di una cosa importante. Rimasi molto sorpresa: mi sembrava un gesto insolito per un ragazzo della sua età. Che strano, fare una cosa del genere, pensai. Che l’avesse fatto perchè glielo avevo dato io, o solo per buona educazione, il suo gesto mi piacque molto.
Quel campanello mise in moto i nostri sentimenti. Ci rimase in mente per tutto il resto del viaggio, ogni volta che il campanello tintinnava, lui si ricordava di me e del tempo trascorso insieme, e io passavo i giorni a pensare a lui e a quel campanellino che lo accompagnava sotto un cielo lontano. Al ritorno cominciò un grande amore.
Per quasi quattro anni il campanello fu con noi a tutte le ore, invariabilmente.
Con noi divise ogni momento che passammo insieme, il primo bacio, le grosse liti, il bel tempo, la pioggia, la neve, la prima notte. Ogni volta che Hitoshi tirava fuori il portatessera, che usava anche come portafogli, udivamo quel tintinnio fievole e argentino. E’ un suono che ho ancora nelle orecchie, dolcissimo.
Se dico che me lo sentivo, può sembrare un sentimentalismo da ragazzina, una di quelle cose che si dicono sempre dopo. Ma lo dico lo stesso. Me lo sentivo. E’ una cosa che mi ha sempre profondamente turbato. A volte, benché Hitoshi fosse lì, davanti ai miei occhi, avevo la sensazione che non ci fosse. Anche quando dormivo avvertivo spesso il bisogno di accostare l’orecchio al suo cuore, non so perchè.
A volte il suo sorriso era così luminoso che ne ero abbagliata. Vi era in lui e nella sua espressione una specie di trasparenza. A essa attribuivo quel senso di fragilità e di inquietudine che mi trasmetteva. Sarebbe stato molto più doloroso se avessi pensato che si trattava di un presentimento. Nei miei vent’anni di vita era la prima volta che provavo un’esperienza sconvolgente come quella di perdere la persona amata.
Ne ho sofferto al punto da sentirmi annientata. Dalla sera in cui lui è morto la mia anima si è trasferita in un’altra dimensione e non può tornare indietro in nessun modo. Mi è impossibile vedere il mondo con gli occhi di un tempo. La mia mente fluttua, senza nessuna stabilità, senza requie, in una confusa desolazione.
E’ un po’ come se fossi passata attraverso quelle esperienze che nella vita ci si augura di evitare: l’aborto, la prostituzione, una grave malattia. Lo so, eravamo ancora giovani, e forse il nostro amore non sarebbe durato tutta la vita. Tuttavia avevamo già affrontato insieme molte situazioni difficili. Vedevamo il nostro rapporto approfondirsi e ci misuravamo con il peso dei nostri problemi, imparando a conoscerli ad uno ad uno. Così abbiamo costruito insieme quattro anni della nostra vita. Adesso posso gridarlo forte. Ma che razza di Dio sei? Amavo Hitoshi più della mia vita."(tratto da Moonlight Shadow, Banana Yoshimoto)