Il Medio Oriente è una polveriera pronta ad esplodere. Le tensioni latenti presenti fra Israele e Paesi Arabi, così come all’interno dello stesso blocco arabo, rischiano in ogni momento di degenerare in un conflitto aperto. La dittatura iraniana, la primavera araba, i cambiamenti geopolitici e l’acuirsi dello scontro fra stato ebraico ed Iran hanno posto nuovamente questa regione cardine al centro della scena mondiale. Questa concomitanza di fattori non è, però, una novità e la si può ritrovare in altri casi della storia recente: un mix esplosivo di tensioni arabo-isreaeliane, crisi economica, incertezza degli altri Stati e radicali cambiamenti da un punto di vista politico e sociale caratterizzarono anche gli anni precedenti alla guerra del Kippur e allo shock petrolifero. Tuttavia, è bene distinguere questi due fatti per evitare confusioni e incomprensioni. Le crisi passate hanno molto da insegnarci e conoscerle è il modo migliore per evitare il ripetersi di errori.
La crisi petrolifera del 1973 è considerata un punto di rottura nella storia del secondo dopoguerra: gli anni precedenti (i trenta Gloriosi) erano stati anni di crescita, con un notevole sviluppo sia dal punto di vista economico che demografico. Al contrario, a questo periodo seguirono anni di crisi, rallentamenti nella crescita, disoccupazione e disordini sociali. Il prezzo del petrolio che quadruplica e il successivo embargo petrolifero sono vissuti dai Paesi occidentali come un vero e proprio shock.
Tuttavia, il periodo in questione è molto più complesso e necessita di un’analisi più approfondita. Infatti, occorre considerare come la crisi petrolifera sia iniziata ben prima della guerra dello Yom Kippur e sia stata caratterizzata dalla volontà dei Paesi ricchi e consumatori di ottenere il controllo delle risorse naturali. Quindi, considerare questa crisi semplicemente come un atto sconsiderato portato avanti dai Paesi Arabi per finanziare Siria e Egitto nella loro lotta contro Israele è erroneo e, quanto meno, semplicistico. Vedere questo comportamento come legato ad una mentalità limitata e poco previdente dei Paesi Arabi è sbagliato. Già del 1960, i tentativi di modernizzazione e di cambiamento portati avanti dall’Arabia Saudita si erano prestati a facili interpretazioni e pregiudizi.
La crisi petrolifera degli anni ’70, quindi, non nacque in concomitanza con la guerra del Kippur, anche se il petrolio è stato a lungo usato come un’arma, ma un decennio prima, a causa delle pressioni da parte dei Paesi che stavano affrontando il difficile passaggio verso la decolonizzazione e che stavano lottando per ottenere l’indipendenza economica e politica.
Tre elementi vengono considerati alla base di questo shock: in primo luogo, la richiesta dei produttori di una maggiore partecipazione nelle concessioni petrolifere; in seguito, l’emergere di segnali di scarsità nelle risorse petrolifere su scala mondiale; infine, il conflitto Arabo Israeliano, che stava fomentando il nazionalismo arabo nella regione.
Può essere aggiunta anche una quarta ragione, spesso sottovalutata ma egualmente importante: la cooperazione fra i produttori di petrolio e i Paesi in via di sviluppo nel Terzo Mondo. Questo elemento mette in luce tutta la debolezza dei Paesi Sviluppati e consumatori di petrolio e, al contempo, il coraggio e la coesione dei produttori di petrolio. Capire fino in fondo il ruolo svolto da questa cooperazione sui generis è importante per avere una visione più ampia e più completa di un periodo storico le cui conseguenze si possono percepire ancora oggi.
È, inoltre, necessario comprendere che i due elementi che hanno caratterizzato questa crisi, l’embargo e l’aumento dei prezzi, hanno svolto un ruolo ben diverso, con conseguenze altrettanto differenti.
Infatti, a dispetto di quanto si possa credere, l’embargo attuato dai Paesi Arabi ha avuto un effetto pressoché limitato, dal momento che è stato bilanciato dall’aumento della produzione nei Paesi non-Arabi, come la Nigeria, e da una progressiva diminuzione del consumo mondiale, soprattutto nel caso europeo. Tale embargo, quindi non ottenne appieno i risultati sperati. Resta tuttavia importante per il metodo con cui fu applicato, in quanto si estendeva solo ai Paesi che sostenevano Israele nella guerra del Kippur, in particolar modo contro gli Stati Uniti.
L’altro elemento, l’aumento generalizzato del prezzo del petrolio, ebbe invece importanti conseguenze a livello mondiale. Le ragioni alla base di questo fenomeno sono molteplici: il deprezzamento del dollaro, la fine di Bretton Woods, aumento del prezzo delle materie prime, la nazionalizzazione di una serie di risorse, tra cui il petrolio, la paura di una penuria delle risorse stesse, tra cui ancora una volta il petrolio in primis, il picco di produzione statunitense, l’emergere della questione ambientale, i cambiamenti socio-economici nei Paesi produttori, l’inflazione galoppante propria di tutti i Paesi.
È, tuttavia, importante notare come questi due elementi siano profondamente separati tra loro: l’embargo non ha nulla a che vedere con l’aumento del prezzo del petrolio e nulla a che vedere con l’OPEC. Infatti, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio include una serie di Stati, fra cui l’Iran, storicamente grandi alleati degli Stati Uniti, i più colpiti dalla decisione.
Questi due elementi sono stati lungamente considerati come un unico fattore, generando pesanti incomprensioni ed errori ed impedendo una visione accurata e razionale di un problema estremamente attuale per due ragioni: primo, perché le conseguenze di quegli anni difficili si riscontrano ancora al giorno d’oggi; inoltre, perché non è da escludere che un simile scenario possa ripresentarsi, considerando le tensioni mai sopite fra mondo arabo e Israele e il conflitto latente ma presente fra stato ebraico ed Iran. Comprendere come si sia trattato di due motivazioni solo in parte legate aiuta avere una visione più chiara del contesto dell’epoca e, forse, ad evitare il ripetersi degli errori del passato.