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Un “modello Kosovo” per la Siria?

Creato il 24 agosto 2013 da Jackfide

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Italian Post

L’enorme spargimento di sangue e la brutalità della guerra civile in Siria stanno mettendo a dura prova l’amministrazione Obama. Per mesi, il governo degli Stati Uniti ha perseguito come un miraggio il tentativo di condannare i soprusi commessi dal regime di Bashar al Assad presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, laddove si sono sempre registrati i blocchi permanenti di Russia e Cina.  Ora, il presunto utilizzo di armi chimiche nelle stragi che si sono consumate mercoledì mattina impogono una presa di posizione che vada al di là della formale condanna dell’impiego di tali armi.

Mentre la  Marina degli Stati Uniti ha comunicato che amplierà la propria presenza nel Mediterraneo installando un quarto missile cruise sull’armata navale presente nell’area (la USS Manhan), a Washington si sta svolgendo un vertice per considerare alcune opzioni strategiche da adottare in vista dei risultati che saranno comunicati dai rilevamenti dello staff ONU inviato a Damasco. Se la linea di condotta auspicata dalla Casa Bianca resta quella di intervenire soltanto previa autorizzazione delle Nazioni Unite, molti analisti stanno discutendo sui possibili sviluppi dell’attuale situazione. In particolare, alla luce delle dichiarazioni rilasciate da influenti autorità istituzionali europee, in primis da parte del premier francese François Hollande, non può essere scartata l’ipotesi di un intervento umanitario patrocinato dalla NATO. Perfino il ministro degli esteri britannico, William Hague, sebbene non abbia fatto alcun riferimento all’uso della forza, ha asserito che quello che sta accadendo in Siria “rappresenta qualcosa che il genere umano non può permettersi di ignorare”.

Le attuali condizioni conducono inevitabilmente la memoria storica al conflitto in Kosovo, dove il governo serbo di Slobodan Milosevic attuò una brutale repressione etnica nei confronti della popolazione  albanese tra il 1998 e il 1999, spingendo l’allora amministrazione Clinton ad optare per un intervento militare concertato con gli alleati della NATO. Clinton sapeva che non c’era alcuna possibilità di sperare in una risoluzione del Consiglio di sicurezza che autorizzasse l’uso della forza. Difatti, la Russia era un partner di lunga data del governo Milosevic e avrebbe esercitato il proprio voto nel Consiglio di Sicurezza per inibire qualsiasi azione militare. Sotto questo punto di vista, la congiuntura è sicuramente analoga a quella odierna, dal momento che il Cremlino, in linea con le posizioni di Pechino, ha sempre “tutelato” il regime alawita di Bashar al-Assad in sede ONU.

In quell’occasione, l’amministrazione Clinton giustificò le proprie azioni come un intervento per proteggere una popolazione oppressa e vulnerabile. Ciò spinse la NATO ad effettuare una serie di attacchi aerei prima che Milosevic accettasse le richieste della coalizione occidentale, in cui si richiedeva il ritiro immediato delle truppe serbe dal Kosovo. Dal 23 marzo 1999 si susseguirono  settantotto giorni di raid aerei effettuati dagli F-16 statunitensi. Le strutture economica e militare della Serbia ne uscirono fortemente provate; perfinola casa di Milosevic fu presa di mira dai bombardamenti. Spinto dal primo ministro britannico Tony Blair, il presidente Clinton si impegnò anche nell’invio di truppe di terra. In quella campagna non venne ucciso nessun soldato americano, mentre da parte serba si contarono migliaia di vittime (tra cui civili). Si aprirono in seguito numerosi dibattiti sull’utilizzo delle cosiddette “bombe intelligenti” (smart bomb).

Tutto questo è stato fatto al di fuori dei confini convulsi del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dove gli americani non avrebbero trovato nessun sostegno da parte della Russia, nonostante il presidente Boris Eltsin fosse in ottimi rapporti con Washington. Anzi, se proprio vogliamo dirla tutta, a due giorni dalla fine delle ostilità si inserì una missione “farsesca” dell’esercito russo. Cinquanta veicoli con a bordo 200 militari si precipitarono in Kosovo dalla Bosnia e occuparono l’aeroporto di Pristina, con l’ipotetico e mal congegnato obiettivo di tutelare una parvente garanzia nei confronti della Serbia. Ma furono gentilmente fatti allontanare dalle forze NATO e in seguito la Russia subì pure qualche sanzione.

Il raffronto con il Kosovo fa riflettere sul fatto che, nel caso di una grave emergenza umanitaria, la comunità internazionale avrebbe la massima autorità di agire con la forza. Queste sono state le parole di Ivo H. Daalder, un ex ambasciatore degli Stati Uniti presso la NATO che ora presiede il Consiglio per gli affari globali a Chicago. Nel caso della Siria, Daalder ha detto che l’amministrazione statunitense potrebbe sostenere che l’uso di armi chimiche sta creando una grave emergenza umanitaria e che, senza una forte e pronta risposta, ci sarebbe il pericolo che il governo di Assad possa in futuro impiegarle su larga scala.

In questo caso, a differenza di Bosnia-Erzegovina, Kosovo e Macedonia, la Siria dispone di uno sbocco aperto sul Mediterraneo, il che combacerebbe con la decisione di estendere le flotte statunitensi via mare. A tal proposito, va ricordato che in maggio si sono svolte due esercitazioni di ricognizione militare: le missioni Brusselsinsists e Phoenix Express. Si tratta di operazioni di routine volte a migliorare la cooperazione tra le marine militari di tutti i paesi interessati alla sicurezza nel Mediterraneo. Lo scopo principale di queste operazioni è quello di condividere i dati in merito al funzionamento del sistema di informazione automatica (AIS) per l’eventualità di effettuare ‘operazioni di mantenimento della pace’ nell’area. I partecipanti hanno testato la possibilità di inviare truppe di terra nelle coste del Mediterraneo.

Giacomo Fidelibus



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