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Un Paese in attesa.

Da Jessi

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Quando sono rientrata la prima volta dopo un lungo periodo vissuto a New York, ho avuto la sensazione che tutto qui da noi fosse immobile. Immobili le strade, le case, le cose, tutto. Una sensazione strana da vivere e difficile da dire. Perché le case stanno ferme ovunque, giusto?

Eppure a me non sembrava così. Ogni cosa là aveva una vibrazione vitale che qui non ritrovavo. Dalla finestra della mia stanza, sulla Lexington, guardavo attraverso il quartiere e al di là del parco. Mentre scendeva il tramonto, ogni momento cambiavano i colori, ma le cose sembravano reagire anche a questo.

Era un continuo accordarsi o staccarsi dal coro. Per quanto fosse tardi, c’era sempre la possibilità di trovare un’altra luce insonne, un’altra finestra accesa, un altro spirito inquieto a guardare fuori, dall’altra parte del parco…

Qui, invece, tutto sembrava fermo, quasi a chiedere di rallentare, ma non nel senso in cui pensiamo al rallentare di solito, quel senso che ti fa apprezzare di più le cose. No. In un senso diverso, quel rallentare per arrivare piano piano alla stasi, all’immobilità.

L’anno scorso, quando ho scatttato questa foto, ho pensato ad un Paese intero.

Un Paese intero che aspetta l’onda in un mare immobile.

Un Paese che, ad oggi, dopo quasi un anno dallo scatto, sembra ancora lì, allo stesso punto, nella stessa attesa. Mentre tutto intorno ci chiede solo quello, restare fermi ad aspettare. Perché alla stasi, all’immobilità bisogna abituarsi, a poco a poco. Aspettando un’onda che non arriva.

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