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Scrivere può essere considerata un’arte ma può anche suscitare una gran fatica. Trovare le parole adatte che si mimetizzino ai pensieri, parole che esprimano perfettamente un significato più profondo è un’ardua impresa. Il mio scrivere non è ancora un lavoro, non è con aggettivi o sostantivi delicati che mi impegno e porto a casa la pagnotta quotidiana. E’ una passione innata e infaticabili sono i miei polpastrelli.Il tram si ferma in Piazza Cinque Giornate, Milano. Poso con leggiadria il piede sul predellino per scendere e mi incammino verso il numero 12 di Corso XXII Marzo. Là dove è arrivata da Mantova mia nonna appena sposata, là dove mia madre è cresciuta e dove è effigiata insieme ad alcuni cugini in un mosaico all’ingresso. Ultimo di cinque piani, portone in legno verniciato di verde abete e targhetta in ottone con la scritta in corsivo inglese. “Carolina Cedi”. Mi apre una ragazza sulla trentina, lunghi capelli di un castano lucente, grandi occhi scuri e un incarnato di rara bellezza. Il sorriso sereno e l’aria scompigliata, informale, di chi conosce il modo e la compostezza di stare al mondo. Carolina indossa un abito a balze d’organza, celeste il colore, cobalto il profilo della parte alta senza spalline. Noto da subito l’assenza di gioielli se non due piccole perle rosate con chiusura in oro bianco, dono di una prozia che della classe fece un’imposizione quasi da gendarme, mi confiderà più tardi davanti ad un caffè latte con biscotti inglesi.
È di una settimana fa l’invito per questa chiacchierata, lei che ha comprato l’appartamento che fu di Nonna Norma, è un’acuta lettrice del mio blog, attenta e non lusinghiera. Cedi è un cognome noto ai più, un cognome che ha fatto storia in una Milano fulcro della sperimentazione architettonica. Patria del design, culla di importanti esposizioni.Il bisnonno Marcello Cedi fu il primo designer industriale in Italia, grafico di campagne pubblicitarie di rilevanti aziende quali Campari e Martini, architetto di grattacieli e alberghi di lusso e progettista di decorazioni per scialli pregiati mostrati alle’Esposizione Universale di Parigi nel 1925. L’eredità non è solo un gruzzolo di risparmi conservati in Svizzera, non è un cognome posto a caratteri tipografici su una tomba al Monumentale o su un palchetto alla Scala, ma è un ingegno affinato, una capacità visiva che in questa famiglia si tramanda da molte generazioni.Carolina mi fa accomodare nel salottino, reso irriconoscibile ai miei ricordi d’infanzia da uno stile minimalista che accoglie le pareti un tempo coperte da tappezzerie antiche. Dove c’era il quadro d’ispirazione giapponese con ideogrammi e anatre, ora una parete liscia color crema a cui sono appesi due specchi ovali con cornici lavorate in legno dipinto. L’arredamento è tutto disegnato da lei, laureata con il massimo dei voti al Politecnico di Milano, corso in “design degli interni” con successivo master a Londra e ora impegnata con la seconda laurea in Storia dell’arte Moderna, perché come dice sorridendo “Di un magnifico Raffaello non si può riconoscere solo il tocco del pennello ma bisogna amare la poetica più sottesa a quelle fisionomie così serene”.
Il divano a tre posti in stile impero orlato di righe bianche e giallo limone, è l’unico gusto eclettico di un piccolo appartamento quasi vuoto, asettico. Lei che nel suo negozio di Via Borgonuovo espone poltrone di sapore Bauhaus dai colori più accesi, tappeti variopinti e quadri dalle linee liberty per ricche signore nostalgiche, nella sua casa invece ha scelto l’essenzialità. Mi incuriosisce una foto in una cornice d’argento, una splendida donna fotografata all’inizio del secolo, con un gran cappello decorato da fiori chiari e un abito di crinolina bianca. “La mia bisnonna, donna bellissima, mi sarebbe piaciuto tanto conoscerla e magari cucire insieme a lei e le altre dame di San Vincenzo” bisbiglia con un tono quasi malinconico. Da subito ho l’impressione di quanto sia importante per Carolina la famiglia, la tradizione e la memoria in particolare.Parliamo di tutto, mi chiede da quanto ho scoperto la passione per la scrittura, da quanto ho intenzione di farlo come lavoro e del perché non mi veda una persona ambiziosa. Le rispondo un po’ imbarazzato ma con pungente sincerità. “Non lo sono, non so cosa sia l’ambizione, al contrario conosco bene l’assenza di autostima”. Carolina è bella, elegante e con la battuta pronta, passerò con lei le successive tre ore senza guardare il telefono, senza nessun suono alieno se non quello del tram sotto casa, rumore che ci si abitua ad amare quando si vive Milano.
In lei vedo il riflesso di un’educazione severa, meno discoteche ma più romanzi, meno shopping e più viaggi. La moda è una sua grande passione, il vintage in particolare assume un carattere più divertente e ludico, capace di regalare un angolo di tempo e una storia da raccontare. È comparsa in molti blog per il suo stile, sandali tacco 12 con dettagli sul collo del piede in seta nera abbinati ad un abitino con maniche a sbuffo a motivo floreale e un panama Borsalino del padre. Alle ultime sfilate di Milano indossava un mini dress blu elettrico con sandalo basso giallo senape e passata intrecciata sulla fronte, “Mi hanno scambiata per Margherita Maccapani Missoni all’inizio”, ride lusingata. Non si definisce una socialitè della Milano bene ma non manca a nessuna iniziativa che abbia a che fare con l’arte, la moda e il design, eventi che sappiamo riunire tutta la mondanità avulsa in pellicce e flute di champagne. “Mi piace uscire ma mi piace ancora di più rimanere a casa con una coppa di gelato e un buon libro, è il massimo della vita”. Tra gli scaffali della sua libreria spunta Carofiglio, Dacia Maraini, molte biografie storiche e tutti i libri di Grisham.
Le riviste coronano qua e là tavolini o mensole, La Repubblica accerchiata da un vecchio numero di Vogue e uno di Vanity Fair, spunta una Eva Mendes di imbarazzante beltà. Carolina ha tanti sogni nel cassetto, sta scrivendo un libro sulla storia della sua famiglia senza avere la presunzione che piaccia a critici ed editori, lo fa per se stessa, per mettere nero su bianco quel patrimonio mnemonico che le è stato trasmesso con cura certosina. Le si illuminano gli occhi quando parla di una trisnonna dama di compagnia della regina Margherita, del nonno architetto e colonna portante del Politecnico che lei stessa ha frequentato con grande passione. L’arte è stato il suo pane quotidiano assieme agli abiti e agli accessori, fotografa per passione, stilista improvvisata per borse da sera mi mostra qualche schizzo a matita. La moda ha bisogno di voci al di fuori dalla massa, mani esperte ma giovani capaci di guardare oltre al marketing illuminato. “I soldi non creano idee vincenti” mi dice convinta di non essere una privilegiata.
Si avvicina il momento dei saluti, quasi intristito mi dirigo verso l’uscita, riguardando un ambiente che apparteneva alla mia infanzia. Saperlo trasformato in qualcosa di vivo e rinnovato mi rende sereno. Ci guardiamo con reciproca stima, la ringrazio per un pomeriggio divertente ma soprattutto educativo, poche ore in cui ho capito che non oltrepassando mai i limiti, non oltrepassando la linea che separa il buono dal cattivo gusto, si arriva alla meta dei propri sogni. Carolina è l’esempio di tutto questo, la grazia, la buona educazione con un pizzico di ironia e un’intelligenza sensibile, per nulla nozionistica. Per nulla accademica.La saluto con la mano scendendo le scale prima che l’uscio si richiuda. Guardo ancora una volta mia madre bambina nel mosaico all’ingresso. Non appena apro il portone mi invadono i rumori di una Milano che in quelle ore si è quasi zittita. Stridono i tram sui binari, suonano i clacson.Mi allontano felice e penso “Queste sono le persone su cui vorrei scrivere tutti i giorni”.
Questi sono i personaggi che vorrei esistessero realmente e non solo nella mia fervida immaginazione.
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