Come scrivevo in questo post alcune settimane fa, per me settembre è sinonimo di scuola. Parte di questa associazione deriva dal fatto che a me la condizione di studente piaceva molto, parte invece è colpa dell’ubicazione: vivo circondata da edifici scolastici.
Cinquanta metri a destra dal cancello di casa c’è l’asilo. Il primo giorno mi accolse in modo amichevole ma mi rispedì a casa solo dopo una lavanda gastrica. A pranzo ci servirono sgombri, una partita avariata: cinquanta bambini e tre suore caricati al volo sulle ambulanze, le cui urla ruppero la quiete del quartiere. Finimmo sui giornali. Io, che arrivo sempre dopo gli altri, ricordo che me ne stavo lì da sola, nel pomeriggio, seduta su una giostra di ferro, le gambine penzoloni, a guardare i bambini intorno a me e a chiedermi se vomitare l’anima fosse attività frequente del posto. Ero timida: mi tenni la curiosità. Poi non ci fu più il tempo per le indagini: mi prelevarono i miei di peso, terrorizzati, e mi infilarono in lettiga con le cannule nel naso. Riprovammo a costruire un legame col luogo qualche settimana dopo, e le cose funzionarono senza intoppi. Andavo e tornavo a piedi: mi accompagnava il mio pazientissimo nonno e con lui arrivavano le prime lezioncine di indipendenza su come allacciarsi le stringhe delle scarpe.
Duecento metri a destra, al di là del torrente, ci sono le elementari. Tanto odiai la prima classe, con la maestra severa e vecchio stile, che aveva dichiarato guerra alla mia disgrafia e non amava gli esercizi di stile, tanto adorai le classi successive, con un’insegnante dolce e ferma, che lasciava correre gli scarabocchi ma mi teneva in pugno facendo presa sull’orgoglio. Anche qui si andava a piedi: una compagna abitava in fondo alla strada e, quando mio fratello, più piccolo, si unì a noi, occupavamo il tragitto per convincerlo che, in realtà, la mia amica aveva una gemella con cui si scambiava di posto a giorni alterni.
Le scuole medie, a pochi metri dalle elementari, erano ai tempi governate da una preside intransigente: mi sembrava di entrare in un collegio. Le mie aule erano al primo piano: tutti gli insegnanti sapevano chi ero; a pianterreno, oltre alla capa, insegnavano i miei. Ho trascorso tre anni con una strana sensazione di paranoia: mi sentivo osservata.
Per il liceo classico emigrai a bordo lago: la mattina attraversavo la strada, mi ritrovavo alla fermata dell’autobus e occupavo i venti minuti di viaggio a cercare di svegliarmi. In fondo alla via, però, c’è un istituto di scuole superiori: quando mia madre ottenne il trasferimento, dalle finestre delle aule teneva d’occhio la casa e, viceversa, i suoi alunni tenevano d’occhio lei che si affacciava al balcone a stendere il bucato.
Anche adesso le scuole scandiscono i miei ritmi mattutini: se per caso sbaglio orario e per andare in ufficio infilo il momento tra venti alle otto e le otto e venti, posso essere sicura che mi ci vorranno almeno dieci minuti prima di farcela ad uscire con l’auto dal cancello. I pullman scaricano orde di adolescenti vestiti di scuro e di jeans, a spalle curve e aria triste, capelli per aria e zaini enormi, che camminano, silenziosi padroni della strada, incuranti del marciapiedi, e con i riflessi dei bradipi. Ci sono passata anche io: trattengo gli istinti di retromarce nervose, li osservo e tavolta li invidio.
Da quest’anno mi sfilano davanti a casa anche i piccolini del Piedibus. Le madri si sono organizzate e, con un efficente sistema a staffetta, portano i pargoli fin sulla porta delle scuole elementari. Al primo sparuto gruppo si uniscono, lungo le vie, altri bambini: risalgono il quartiere in un piccolo fiume giallo, vestiti col giubbino color limone catarifrangente, tutelati agli incroci dagli anziani volontari che fermano il traffico armati di paletta. A differenza degli adolescenti, a questa età, la mattina sono già vispi e comunicativi. In fondo alla coda ci sono due ragazzine, sempre le ultime, che si bisbigliano segreti, le facce chinate l’una verso l’altra; in mezzo si parla di gormiti e di scuola calcio; in testa si dà ancora la mano alla mamma.