Philippe Delerm nel suo “La prima sorsata di birra e altri piccoli piaceri della vita” (volumetto che consiglio a tutti di leggere), un libro di sensazioni squisite e fuggevoli, capaci però di riempire una vita, racconta di momenti magici colti nella loro immediatezza e assaporati in tranquillità, come una conversazione al tavolo della cucina sgranando piselli, il lieve fruscio della dinamo contro la ruota durante una pedalata notturna e tanti altri ancora. Tra questa intensa collezione di piccoli racconti, capaci di riportarci ad una quotidianità ormai dimenticata, c’è quello dedicato alla piacevolezza d’una passeggiata nel bosco sul finir dell’estate, per cercar more.
Andar per more.
È una gita da fare con vecchi amici, alla fine dell’estate. Le vacanze sono agli sgoccioli, tra qualche giorno si ricomincia; allora è piacevole un’ultima passeggiata tranquilla che sa già si settembre. Non c’è bisogno di inviti, di mangiare insieme, basta una telefonata, in un primo pomeriggio domenicale:
“Verreste a cogliere le more?”
“Che combinazione, stavamo per proporvelo!”
Si torna sempre nello stesso posto, lungo la stradina, al limitar del bosco. Ogni anno i rovi diventano più fitti, più impenetrabili. Le foglie sono di un verde opaco, profondo, i gambi e le spine di una sfumatura che richiama i colori della carta vergata con cui si riscoprono libri e quaderni.
Ognuno si è munito di una scatola di plastica dove le bacche non si schiacciano. Si comincia a cogliere senza molta frenesia, senza molta disciplina. Basteranno due o tre vasetti di marmellata, da assaporare subito nelle colazioni di autunno. Ma il piacere massimo è quello del sorbetto. Un sorbetto di more mangiato la sera stessa, una dolcezza gelata dove sonnecchia tutto l’ultimo sole pieno di scura freschezza.
Sono piccole le more, di un nero brillante. Ma cogliendole preferiamo gustare quelle che hanno ancora qualche granello rosso, un sapore acidulo. Le mani si macchiano presto di nero, ce le puliamo in qualche modo sull’erba bionda. Sul limitare del bosco le felci si fanno rossicce, e pendono ricurve sopra perle violette di erica. Si parla del più e del meno. I bambini si fanno seri, manifestano o il desiderio di aver un tale o un talaltro professore. Sono i bambini che guidano il ritorno e il sentiero delle more ha un sapore di scuola. La strada sale e scende appena: una strada per fare quattro chiacchiere. Tra due rovesci, torna a offrirsi una luce ancora calda. Abbiamo colto le more, abbiamo colto l’estate. Alla curva dei noccioli, andiamo verso l’autunno.
Tratto da “La prima sorsata di birra e altri piccoli piaceri della vita”
di Philippe Delerm.
Orbene, anche io qualche giorno fa ho voluto assaporare sulla mia pelle la piacevole sensazione che regala una passeggiata al limitar del bosco per cercare le more. Devo dire che era un’idea che avevo da tanto, tantissimo tempo e che come tante altre cose non son stato capace di condividere con nessuno, meglio, non sono stato capace di condividere con chi avrei avuto piacere di avere come compagno d’avventura, ma poco (?…???) importa, almeno per qualche ora sono riuscito a lasciarmi alle spalle il mio “malinconico broncio” (cito testualmente) per godermi il fascino di una magica passeggiata.
L’inizio è stato a dir poco comico, da ragazzino conoscevo una infinità di angoli nascosti dove poter gustare le more più grandi che avessi mai visto, quando ho varcato la soglia della porta di casa, però, mi son reso conto di non avere la più pallida idea di dove potermi avventurare. I sentieri sui quali mi inoltravo, infatti, sono letteralmente spariti, cancellati come si fa con un colpo di spugna su una lavagna. “E ora?” Mi son chiesto. Beh, non c’è voluto molto per capire che prima di andar per more, avrei dovuto trovarle le more (esercizio, vi assicuro, non da poco!), ad ogni modo la strada sulla quale ho deciso di incamminarmi è quella che, nonostante percorro con regolare frequenza, suscita in me ancora forti emozioni. “Facile che tra quelle curve trovare anche le more” mi son detto, ed in effetti non ho dovuto passeggiare poi molto per realizzare di aver fatto tombola.
Di rovi con gustose more che luccicano al sole ne ho scovati diversi, scoprendo, con un istinto da vero cacciatore di piste (sic!), che non ero stato il primo ad aver battuto quelle strade, ma poco importa, chi mi aveva preceduto, infatti, era stato accorto nel raccogliere solo le more mature, lasciando tutte le altre ancora al loro posto. E così assorto nei miei pensieri ho iniziato a riempire il mio cestino da scampagnata domenicale.
Raccogliere le more non è affatto semplice come può sembrare. Inizialmente ho dato un’occhiata sommaria per capire da dove cominciare. Di more ne vedevo a bizzeffe, e così, quasi senza volerlo, ho elaborato una veloce strategia di raccolta. Decido di cominciare dal basso, da quelle more semplici e piccole, nascoste di solito da un nugolo di foglie puntigliose, scostando le quali (non senza problemi) immediatamente mi accorgo che chi mi aveva preceduto non era stato capace di realizzare che una volte colte e tenute finalmente alla luce del sole, anch’esse brillano d’un viola intenso, dietro al quale si vede lontano un miglio nascondersi una sorprendente dolcezza.
Come uno stupido, però, mi dico che non è per quelle more che ho fatto tanta strada. E così penso (nient’affatto) bene di dirigere le mie attenzioni verso qualcosa di più soddisfacente. Ed in effetti lì, proprio di fronte a me, c’è un bel gruzzolo di more grandi e succose che aspettano solo d’esser colte. Senza pensarci su un attimo scatto in piedi in un baleno, lasciando da parte le more che stavo cogliendo, per fiondarmi su quelle “alla mia altezza”, ma quando allungo la mano per coglierle ecco che incappo maldestramente nelle spine (chi ha detto non c’è rosa senza spina, s’è dimenticato di citare pure le more!) e più cerco di divincolarmi più ne divento prigioniero. Così, quando alla fine riesco a venirne fuori, scopro che le more che ho voluto afferrare con forza mi hanno fatto male, lasciandomi letteralmente il segno e mi chiedo se la gioia che mi lasceranno in bocca potrà valere il sacrificio fatto.
Intanto, il terremoto che son riuscito a sollevare scombina la quiete del bosco, i silenziosi animaletti che mi stavano accanto scappano via, e così nello stupore di scoprire che non ero il solo a bramare quelle succose delizie, mi accorgo che lassù in alto ci sono forse le more più belle che io abbia mai visto, son lì che risplendono al sole d’una luce calda e ne resto quasi ipnotizzato, ma per quanti sforzi io provi a fare, loro, quiete, non si faranno mai raggiungere, tant’è che, come la volpe con l’uva, mi convinco che in fondo non son niente di che e non fanno per me.
Allo stesso tempo, mentre pensieroso mi auguro che i graffi non mi creino troppi fastidi, mi ritrovo di nuovo, quasi senza volerlo, ad arraffare le more che avevo inizialmente tralasciato, questa volta, però, non le ripongo nel cestino, ma con un’aria tronfia di soddisfazione son ben lieto di assaporarle lì, sul posto, gustandone la squisita dolcezza.
Il cielo ormai è diventato d’un viola meraviglioso che mi lascia senza fiato e allo stesso tempo mi consiglia di tornarmene a casa. Col cestino semipieno imbocco con far inquieto la via del ritorno sospirando in pensier mio: “Che bella sarebbe la vita se la si potesse far somigliare ad una passeggiata per coglier more”!