Per questo post non posso promettere totale coerenza e filo logico, inoltre la mia può sembrare una strana scelta di argomento con tutte le cose serie che succedono, ma il mondo è sempre un posto terribile, se dovessero aspettare la pace e l’armonia gli esteti non uscirebbero mai allo scoperto. Comunque io sono una di quelle persone che pensa che niente sia del tutto frivolo, in primo luogo, e in secondo luogo che la bellezza determini la qualità della vita con un’importanza che purtoppo pochi capiscono, perché molti sono preoccupati da cose che percepiscono come più urgenti, o dagli affari loro. Forse alla fine di questo post si sarà capito perché girare con le maniche larghe e le scarpette ricamate è una manifestazione concreta di gran parte dei valori principali della mia vita, forse no. Intanto, vi considero avvisati. Io non so che idea si siano fatti di me quelli che leggono questo blog e non mi conoscono personalmente, però è arrivato il momento di dire che una delle mie grandi passioni è la storia del costume. Ho scelto questo termine per non dire ‘moda’, a cui vengono associate subito superficialità, transitorietà, frivolezza. Perchè, poi? Lo so perché, non del tutto ingiustificatamente, e ho speso parecchie energie nella mia vita a contrastare questo stereotipo: perchè un appassionato di architettura o un collezionista di quadri, per non dire di musica o letteratura, sono colti amanti del bello e dell’espressione artistica, e un appassionato di moda no? Alexander McQueen non era forse un genio tormentato come, che so, Van Gogh o [metteteci un poeta qualsiasi che vi piace]? E quanta simbologia, quanto artigianato, quanta ricerca, quanta conoscenza, vanno nella progettazione di una sfilata o di costumi per un film? Ma ai costumisti si presta sempre poca attenzione. Come forma d’arte o di espressione di sè, la moda ha qualità che la rendono più democratica, visibile e immortale di altre: si porta con sè e si adatta al proprio corpo, è collettiva oltre che individuale, si manifesta anche in altre forme artistiche come la pittura o il cinema, ogni giorno si rinnova e non la si può evitare neanche volendo. Ha una componente estetica, una funzionale, e una morale. Studiare la storia della moda permette di capire, se la si sa leggere, un’infinità di cose su un determinato periodo storico o una società: la divisione in classi, il ruolo della donna e i rapporti tra i generi, l’idea di infanzia, gli scambi con altre società, l’economia, il sistema di valori… Il modo in cui si veste una persona fornisce informazioni volontarie o involontarie sull’immagine che ha di sè o su come vorrebbe essere vista dagli altri, sulla sottocultura a cui appartiene, sulla sua provenienza geografica, sul suo stile di vita, sul ceto, su quello in cui crede persino… uno potrebbe dire: questo non mi piace, quindi cerco di vestirmi in modo neutro. Ma vestirsi in modo neutro, come mangiare in modo neutro, non è possibile: non sono neutri un paio di jeans, abito occidentale (o americano), globalizzato e unisex per eccellenza, non è neutra una giacca e cravatta, non è neutro niente. Viviamo in un tempo e in una società in cui ogni forma di vestiario è almeno teoreticamente accessibile, eppure c’è molto conformismo; in un tempo a mio giudizio di bruttezza generalizzata, e i messaggi che credo di leggere più spesso, pronunciati dai vestiti altrui, sono: ‘non voglio distinguermi troppo ma voglio piacere’, ‘vado al centro commerciale’, ‘non voglio rinunciare a niente e voglio cambiare spesso’, ‘voglio esibire il mio corpo’, ‘voglio apparire ordinato e pulito’ oppure ‘mi oppongo al modello perbenista di ordine e pulizia’, e così via. Tutti, con rarissime eccezioni, dicono: sono esteticamente pilotato da gente di cui non sospetto nemmeno l’esistenza, non m’importa e non so cosa significhi. Quest’ultima affermazione può sembrare esagerata. Io la faccio perché passo molto tempo su siti di moda e leggo riviste e libri. A parte il piacere estetico, la mia motivazione è sociologico-culturale. Gli stilisti e chi lavora ai vertici del settore decidono cosa ci si metterà. Piano piano le loro deliberazioni, le loro scelte e i loro gusti, tramite film, serie tv e video, tramite la grande distribuzione, i rotocalchi e ora persino le colonne destre degli ex giornali seri, tramite l’onnipresente e inconscio istinto umano di imitare gli altri, arrivano in tutto l’occidente e direi anche in tutto il mondo, fino a una cittadina di provincia come la mia. Esco a Udine e guardo cosa la gente indossa, poi cerco di risalire a dove quella decisione estetica è stata presa, e di capire fino a che punto siamo manipolabili. Funziona tutto così, cose considerate frivole e cose serie: ad esempio ora anche la decrescita, minoritaria fino a poco tempo fa, è una moda.[Mi sono sentita dire 'bisogna decrescere!', l'altro giorno, dall'imprenditore più ricco che conosco. Ma questa è un'altra storia.] Dove nascono e per dove passano i gusti, come le idee? Capire cosa viene dal basso e cosa viene dall’alto è per me molto importante. La moda è un ottimo caso – studio: sono i tempi che cambiano, i gusti degli stilisti, o entrambi? Popolo, o elite? Ora, la mia preoccupazione principale nell’ambito della ‘moda’ è questa: come il vestire incontra i miei valori sulla società futura, che potrebbero essere riassunti (e mi rincresce farlo) così: una società in cui si sa vivere in comunità e conoscere il territorio che si occupa, la sua storia e la sua economia, e autogestirsi in base alle proprie risorse; in cui le diseguaglianze di reddito sono minime e giustificate dal diverso impegno individuale in un contesto di pari opportunità e diverse aspirazioni; in cui si consuma molto meno, ma con più attenzione, e si butta via solo il poco che non può essere recuperato; in cui si rispetta il lavoro altrui e vi si dà il giusto valore, ma si fa molto altro oltre a lavorare, e si autoproduce; in cui l’estetica sia individuale che collettiva è un valore non residuale ma centrale, legato ad altri valori quale la tutela dell’ambiente e la sua conoscenza, la salubrità, la consapevolezza di sè, addirittura l’equilibrio tra pubblico e privato (mi riferisco alla malattia di celebrità e ostentazione, non alla ‘privacy’ dei disonesti), tra sincerità e mistero. Tutto questo valore sia estetico che morale, per fare un esempio, io lo trovo in una casa in corte o in un vecchio borgo, e non lo trovo in una villetta monofamiliare o in un grattacielo. Lo trovo in un’osteria ben tenuta, quasi mai in un albergo di lusso. Tornando al vestire, penso spesso: alcuni popoli, molti a dire il vero, più o meno ‘moderni’, hanno mantenuto il proprio abito tradizionale, o lo hanno reinventato, ma noi, e per noi intendo sia friulani che italiani, no. Le donne carinziane, sudtirolesi e bavaresi, per esempio, indossano ancora il dirndl, simile ai nostri costumi femminili, ma in Friuli non se ne vede, ed è difficile trovare artigiani che ne fanno – sopravvivono solo gli scarpez, che si vedono ogni tanto ai piedi anche degli uomini. I friulani in particolare si vestono molto male, di scuro senza eleganza, spendendo poco ma ostentando ugualmente (basta vedere il numero di borse di Louis Vuitton a Udine), con roba totalmente globalizzata e mai diversa da quella che si potrebbe trovare in qualsiasi parte del mondo – una non-eleganza di gente che ha paura di distinguersi, che ha paura dei colori, che ha paura di sembrare vecchia o povera e si vergogna di spendere a meno che non sia per una firma. Il risultato è un brutto generale – che ti frega, mi si potrebbe dire. Mi frega, perché la gente vestita male fa tristezza, come un parcheggio di periferia o un balcone senza fiori, o una spiaggia di Lignano o una villetta anonima con posto auto fuori da un borgo antico. Oppure mi si potrebbe dire: lo pensi tu che la gente si veste male. Sì, può darsi, ma provate a sedervi a una sagra e guardare la gente che passa, io lo faccio. I volti e i corpi saranno belli, ma i vestiti dicono: fatto senza cura. Come sono fatti senza cura gli oggetti nelle nostre case, molti dei cibi che mangiamo, persino gli articoli dei giornali. Tutto in fretta, tutto facile ed economico, tutto senza qualità. Inoltre, come nella tecnologia, anche nell’abbigliamento il cambiamento rapido produce inutili incompatibilità e obsolescenze programmate. Lo stesso fa la quantità. Abbiamo tanta roba, eppure non sappiamo mai cosa mettere. Forse questo vale soprattutto per le donne, che hanno molta più scelta. La troppa scelta, ormai si sa, causa stress e insoddisfazione. Fa anche perdere tempo. Da quando ero piccola, e non sono tanto vecchia, ho visto alzarsi e abbassarsi punti vita e orli, cambiare tipi di scarpe, allargarsi e restringersi pantaloni… e bisognava stare al passo, niente stava bene con i vestiti di due soli anni fa. Ora sto cercando di ridurre la quantità di roba nell’armadio (che a sua volta deriva dall’epurazione di armadi altrui) e di trovare combinazioni ripetibili che rendano possibile possedere meno e utilizzare di più quello che ho. Questo non c’entra molto con il discorso sul costume tradizionale, ma è anche vero che i nostri antenati (non i ricchi, la maggior parte della gente) variavano molto meno e cercavano di sfruttare un capo il più possibile, perché costava tanto e altri non si potevano comprare. Ad esempio, gli scarpez erano fatti con vecchie stoffe cucite assieme. La camicia sotto gli abiti si teneva anche per dormire. Si cercava di usare lo stesso abito il più possibile durante l’anno, magari aggiungendo o togliendo le maniche. C’era il vestito da lavoro, e quello della festa. Fine. Credo che le cabine armadio e le scarpiere siano un’invenzione moderna. Ora abbiamo inventato, sempre perché la nostra è una società consumista e bisogna sempre vendere qualcosa, tipologie di abbigliamento diverse per ogni attività: lavoro fisico e lavoro in ufficio, sport e serate eleganti, notte e giorno, mare e montagna, estate e inverno e mezza stagione, e così via. Io rifiuto tutto questo. Penso sia inutile. A parte alcune cose veramente basilari, come delle scarpe grosse per le strade di montagna, o il caschetto in bici, penso che questa mania dell’abbigliamento ‘tecnico’ e preciso per ogni occasione sia un’invenzione consumistica come tante altre. Alcuni amici sportivi mi danno ragione, altri torto. Io so solo che non devo battere tempi né gareggiare con nessuno, ma solo andare in giro, quindi mi sono trovata a issare una bicicletta per alcuni metri di argine terroso con scarpez e vestitino, senza sentirmi ‘scomoda’, o a fare cose che fanno inorridire i miei genitori, come nuotare in biancheria perché non sopporto i tessuti sintetici, o lasciar indurire i piedi d’estate per non dover mettere i sandali quando vado al fiume in montagna (lo so, fa schifo. A me no). Scusate, torno indietro. Una volta il vestire era più semplice, durevole, curato, e legato al territorio e a una vera tradizione. Ora è globale, veloce, scadente, abbondante in quantità non in qualità. Perché non abbiamo mantenuto nulla delle nostre tradizioni nel vestire, tradizioni di artigianato e autoproduzione, di particolari curatissimi, di decorazioni a fiori perché la nostra terra è piena di fiori, di stoffe robuste, di risparmio e riuso perché non c’era alternativa? Secondo me, perché gli abiti tradizionali fanno parte di quel passato di miseria, di “ignoranza” (tra virgolette molto grandi), di vita contadina o montanara che ci siamo voluti lasciare alle spalle, assieme alla lingua, ai lavori tipici, all’artigianato, alle tipologie abitative, ai valori e ai ritmi della vita… naturalmente questa è una gigantesca generalizzazione, ma vera in buona parte. In sostanza, l’abito friulano popolare è stato abbandonato perché si è rifiutato il mondo da cui è emerso, e perché i modelli di mondi alternativi erano troppo forti e allettanti, e questi modelli ci dicevano anche cosa indossare. Io credo che si assista a dei ritorni, perché esistono dei cicli e perché di certe cose si sente la mancanza, per esempio dei cibi o dei ritmi di vita, ma una cosa che non penso stia tornando più di tanto è il costume (anche se qui e lì, vedo emergere interesse da persone insospettabili…). Qui entra in gioco una delle mie fissazioni. Sto studiando la storia del costume friulano, che, come tutto il resto qua, varia tantissimo da montagna a pianura e da est a ovest e da paese a paese. Dentro c’è raccolto un mondo intero che mi interessa, un mondo di abilità manuali, di senso estetico, di cura e bellezza nella povertà, di fiori e di frutti. E anche di influenze culturali slave, germaniche o venete, o più lontane ancora. Siccome quello che si conosce come costume friulano appartiene solo ai secoli più recenti, mi sto interessando anche di altre tradizioni come quella orafa longobarda o celtica, per il poco che se ne sa. Vado alle rievocazioni e mi chiedo cosa si possa mettere anche tutti i giorni. Intanto cerco di evitare i jeans, soprattutto quelli blu. I ragazzi del nord est indossano i jeans come un’uniforme, e non se ne rendono nemmeno conto. A me invece piacerebbe fare come faceva Frida Kahlo, che indossava gli abiti tradizionali messicani. Il problema è che per pensare di studiare veramente, riscoprire e reinventare il costume friulano (i costumi friulani), e quelli che lo precedettero, che è quello che vorrei fare, servono un sacco di soldi, e io non ne ho. Però ho deciso di cominciare lo stesso. Ho trovato una sarta carnica che mi facesse una camicia bianca, a maniche larghe, un lavoro artigianale di ottima fattura e ispirato al costume settecentesco. Sopra ci ho messo un dirindl, perchè avevo solo quello, e pochi si sono accorti della differenza (il nostro costume ha un’altra scollatura e un altro tipo di pieghe per la gonna, ma io non sono una purista). Questo dirindl è fatto di stoffe robuste e bellissime, fa sembrare stracci tutti i miei altri vestiti. E il grembiule… quanto mi piacerebbe averne altri.. C’è tutta una simbologia legata ai disegni su grembiuli e fazzoletti, ho scoperto, ma non ne so ancora nulla. Ora chi pensa ai simboli legati a quello che indossa? Poche sottoculture giovanili forse, gli altri guardano e dicono: mi piace, non mi piace, carino, brutto. Forse non è immediatamente chiaro cosa c’entri indossare un grembiule con le mie solite tirate su decrescita, mobilità, partecipazione… ma il grembiule era l’ornamento delle contadine e delle montanare, quelle che indossavano scarpe basse perché dovevano camminare molto, che riutilizzavano le pezze per fare gli scarpez, che lavoravano nei campi, che filavano, allevavano i figli, tessevano, cucinavano, portavano le foglie di gelso ai bachi da seta, facevano da sole le calze e il corredo, che autoproducevano il più possibile e vivevano nella fatica, e che alla fine dissero ai loro figli di studiare e scappare da tutto questo – oppure i figli lo fecero appena poterono. Io non voglio tornare indietro del tutto, ma riscoprire ciò che di buono si è perso sì. Quante cose ci sarebbero da riscoprire, quante tecniche e quanti disegni, lontano da una moda globale e individuale, perché tra il globale e l’individuale c’è la dimensione che secondo me sta tornando, quella comunitaria, forse anche nel vestire, o così spero.
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