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Dopo aver chiarito la natura dell’ineluttabile che destinava l’Italia a darsi una legge sul divorzio, sarebbe necessario un secondo paragrafo sui fattori che lo ritardarono. Essi, tuttavia, sono già tutti noti in sede di analisi storiografica e sociologica, quasi interamente riconducibili alla peculiarità italiana di avere in Roma una doppia capitale, sicché possiamo risparmiarci di ripetere quello che è già stato abbondantemente detto.Riguardo a questo aspetto occorre rilevare solo un dato che può tornarci utile a spiegare cosa aprì la via all’ineluttabile, e qui torna utile quanto abbiamo detto nel primo paragrafo sulle più comuni reazioni a ciò che si sente ineluttabile e in sintesi descrivere la posizione delle forze in campo come diversamente convergenti al calcolo che dava per improcrastinabile una legge sul divorzio anche in Italia: chi vi si opponeva sapendo che sarebbe stato vano (1) o meno (3) neutralizzava le forze di chi era disposto a lasciar che accadesse cercando di farsene una ragione (2) o di dare al testo di legge un tratto mite (4), dacché si realizzava sul piano tattico una spaccatura all’interno della Dc che consentiva ai partitini laici e al Pci di convergere sulle proposte avanzate dai socialisti in Commissione parlamentare, per portare all’esame delle Camere un testo sul quale la Dc fu costretta a piegarsi per evitare che su quella legge si consumasse una esiziale crisi di governo. Se è vero, dunque, come ricordava Giuliano Ferrara nel suo editoriale di lunedì 12 maggio, che sul referendum che vi sarebbe stato di lì a quattro anni il Pci recalcitrò e fece di tutto, fino a quando fu possibile, per evitarlo, battendosi poi a malavoglia per il no all’abrogazione della legge, è altrettanto vero che il suo impegno in Commissione e in Parlamento fu decisivo.Anche da ciò il titolo di questo post: l’ineluttabile prese corpo il 1° dicembre 1970, mentre il risultato che uscì dalle urne il 14 maggio non fece che renderlo visibile. Tanto più visibile in quanto trasversalmente accettato, e più come presa d’atto dei mutamenti avvenuti nella società italiana che come ulteriore spinta ad essi. ha postato in questi giorni l’editoriale che uscì sul Corriere della Sera il 10 giugno 1974 a firma di Pier Paolo Pasolini e in quella pagina questi elementi di analisi erano già tutti presenti: l’esito del referendum poteva aver avuto l’effetto di uno shock solo per chi non aveva capito che già quattro anni prima, col varo della legge, era stato il Parlamento a dar voce all’ineluttabile, facendosi specchio del paese, forse proprio perciò incapace di leggerne la faccia. Basta rileggere gli atti della discussione parlamentare che portò all’approvazione della legge per cogliervi il segno del fatale: le argomentazioni a favore non facevano che fotografare la realtà, quelle contrarie si limitavano al richiamo di una tradizione che già da tempo era smarrita. Perciò, nel quarantennale del referendum che confermò la legge sul divorzio, sarebbe necessaria una adeguata revisione storica, che proprio nella celebrazione dell’evento trova il maggiore impedimento.Basti pensare al peso spropositato che si è soliti dare ai radicali, che in realtà si limitarono a strepitare sull’onda sulla quale erano montati: la Lid (Lega italiana per il divorzio) aveva nella sua presidenza un solo radicale (Mauro Mellini), il testo della legge portava i nomi di un socialista e di un liberale, nel comitato referendario per il no all’abrogazione i radicali erano una sparuta minoranza. Ma di questo, nel dettaglio, al prossimo paragrafo.[segue]
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