La trasformazione dei colori, la densità diversa della luce. In primavera, sono feroci. In Sicilia, forse, sono più feroci ancora. C'è un momento, collocabile grossomodo a metà marzo, in cui, in un giorno come un altro, prendi la macchina per andare in facoltà, e qualcosa è diverso. Ti accorgi che le cose che ti scorrono attorno, oltre il parabrezza, sembrano cambiate, in una sola notte. Cambiate completamente. Dovresti chiederti com'è possibile, ma non te la fai più, quella domanda. Sai che è così, ogni anno, e questo ti basta. Ti consola l'ineffabilità del ciclico.
È in giorni come quello che ogni anno vivo a metà marzo, che si stabiliscono connessioni inaspettate; ricordi, odori, momenti, movimenti e stasi si incastrano. Nel più recente di questi giorni “magici” mi è capitato di ripensare a quando accompagnai un anziano all'aeroporto. C'era almeno un'altra persona con me, oltre l'anziano e sua moglie.
Il ricordo procede a scatti, per sequenze significative, esemplificative, si dipana come in un montaggio. Aveva difficoltà a camminare, quindi bisognava parcheggiare la macchina il più vicino possibile. Accompagnarli, lui e la moglie, attendere l'imbarco, salutarli e tornare a casa. Il piano era semplice. Sosto davanti all'ingresso principale, giusto il tempo di farlo salire.
Lentamente lo vedo arrivare, con la moglie accanto. Metto le frecce d'emergenza (per puro scrupolo), faccio il giro, vado ad aprirgli lo sportello. Mentre, non senza difficoltà, salgono in macchina, prima il bastone che lo sostiene, e poi lui, l'anziano mi ringrazia con uno sguardo.
Via Vittorio Emanuele II era una lunga e leggera discesa, all'epoca. Poi hanno modificato i sensi di marcia. Saranno state le 12. Alla fine di quella lunga strada arriviamo in Piazza dei Martiri, che confina con la ferrovia che confina col mare, e certe volte si vede passare il treno, da destra a sinistra, come se stesse per conficcarsi nella città. I miei passeggeri stanno conversando, io li sento ma non capisco bene cosa si dicono; sembra una conversazione vivace. Giù verso il porto, costeggiandolo, attraversando la luce del sole e sentendo un po' caldo, del resto siamo a maggio, ci immettiamo nell'Asse dei servizi ma subito lo abbandoniamo, diretti allo scalo.
L'imbarco è tra un po', dunque decidiamo di pranzare. Siamo in quattro al tavolo; da qui si vede la folla che, paziente, scorre verso i controlli di sicurezza. Attorno a noi molta altra gente che mangia, guarda nel vuoto, sorride, beve, si agita, si rilassa. Il discorso cade sulla mia tesi, l'anziano mi chiede di cosa mi sto occupando e io, non senza qualche imbarazzo, dico che sto facendo uno studio comparato su Fosca di Tarchetti e il film che Ettore Scola ne ha tratto nel 1981: quante volte avrò ripetuto questa cosa, eppure questa volta il mio interlocutore mi sembra interessato. Rimane per un attimo a guardare il piatto, poi aggiunge che lui si è occupato in passato anche di Tarchetti, in qualche modo, e che ricorda uno scritto nel cui titolo c'è la locuzione «coperto dei figini»; e io aggiungo che sì, è Paolina. Misteri del Coperto dei Figini. Il pranzo scorre via come in sogno, leggero ma con la consapevolezza di averlo vissuto.
Si è fatta l'ora. Tutto pronto. Non avevo detto che lui è su una sedia a rotelle. Non era un dettaglio importante, tante e tali sono la vitalità, la curiosità, la forza che emana e di cui ci sentiamo partecipi in un modo che non comprendiamo. È ora. Un attimo prima di superare il varco di sicurezza, aiutato dal personale dell'aeroporto, con sua moglie al seguito, ci saluta e ci rivolge ancora un sorriso, come un nonno che saluta temporaneamente i nipoti, in attesa di rivederli poco tempo dopo. Come in un film di Chaplin, lo vediamo scomparire lentamente in direzione del gate.
Quell'anziano uomo dagli occhi chiari, lo sguardo pronto e la risata generosa si chiamava Edoardo Sanguineti.
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