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De rouille et d'os, il "sapore" è abbellimento italiota.Parliamo dell'ultima fatica del regista francese Jacques Audiard, del quale mi sono promessa un doveroso recupero in todo. Il prossimo sarà infatti Il profeta, il film-consacrazione per eccellenza.
Un sapore di ruggine e ossa si rifà ai racconti di Craig Davidson ed è uno schiaffo al solito dramma sentimentale. Stéphanie/Marion Cotillard e Alain/Matthias Schoenaerts sono i protagonisti inconsapevoli di una serie di sfortunati eventi, i quali cambieranno le loro vite. Lei, una donna che sa ciò che vuole e ama vedere gli uomini caderle ai piedi, senza tuttavia prolungare più di tanto quel piacere effimero. Un'addestratrice di orche costretta a rinunciare per sempre alle proprie gambe, a causa di un tragico incidente avvenuto ai bordi di quella vasca grande, forse non abbastanza da contenere e placare la natura selvaggia di un mammifero ciclopico. Alain è invece un uomo che decide di fare il padre pur non essendone capace.
E' questo che allinea il film di Audiard su un'orbita quasi a sé stante. I protagonisti sono gli antieroi per antonomasia, soprattutto Alain. Un uomo-macchina da combattimento e sesso, incapace di amare, persino suo figlio. Stéphanie nonostante abbia capito fin da subito la filosofia dell'uomo che sta iniziando ad amare, va avanti senza paura. Anche se arriverà un momento per spiegare cosa significhi la "gentilezza". Ed è bellissimo quando lei cerca di farglielo capire. Marion come sempre brilla di un'eleganza e di una carica emotiva senza pari. Mi viene in mente la sequenza, una delle più trascinanti del film, che la vede mimare la persona che era prima dell'incidente. Ricordando i gesti e la fiducia di quell'animale enorme davanti a lei, il rumore dell'acqua e l'entusiasmo scalpitante della folla. Nonostante si assista a una storia tragica, non si sa mai dove schierarsi durante la visione. Lo spettatore guarda questi essere umani allo sbando, sull'orlo della perdita di sé stessi. Eppure non si prova pietà per loro, non si sente il bisogno di commiserarli. A volte si arriva ad odiarli, parlo di Alain nello specifico. Quando mette le mani addosso al figlio, quando tratta Stéphanie come una donna da accontentare per pena, o puro sfizio. Tutto sommato non parliamo di un film memorabile per ciò che racconta, ma per come a un certo punto chi guarda, si senta mancare l'aria da sotto il naso, dalla bocca. Non appena ci si abitui a camminare insieme a Stéphanie, senza le sue gambe, ecco di nuovo la terra tremare, il respiro si ferma e non ci si muove più.
Le mani di Alain sul ghiaccio, disperate sopra la lastra che intrappolava il figlio e lasciava intravedere la sua piccola sagoma. I colori del suo giubbotto, il profilo del suo volto sommerso dall'acqua gelida. La sensazione che, nemmeno quella violenza forsennata avrebbe messo fine a quell'interminabile sofferenza. In quel momento l'uomo che odiavamo, ci sembra la sola persona che vorremmo comprendere, anche se non possiamo. Che vorremmo salvare da quel dolore e liberarlo una volta per tutte. Audiard decide poi di placare tutto e tutti con un finale lieto, dove un bambino sorride e tiene ancora la mano a suo padre e dove una donna possa sentirsi finalmente amata. Alain sarà un uomo migliore, ma il dolore alle ossa è destinato a riaffiorare di tanto in tanto e, quando accadrà, farà male come la prima volta.
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