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Un tè di petali (rosa e girasole)

Da Lasere

Stamattina ho aperto gli occhi con un desiderio di petali.

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Sono uscita in giardino poco dopo l’alba, alla ricerca: erano gli ultimi rimasti: la rosa rossa – la più vanesia e fragrante, dai fiori opulenti e sensuali, dai petali spessi -; il girasole inguaribile ottimista, forse perché nato per accidente (i picchi muratori son soliti nascondere i semini in vasi e tronchi, per tornare a riprenderli poi: ma capita che se ne dimentichino: spuntano girasoli, per caso, a ricordargli quanto abbian la testa tra le nuvole – loro che possono); la rosellina fitta di piccole lingue rosa, sotto la quale ultimamente un cucciolo di cane si stende volentieri, dopo aver scavato quel tanto che basta per andare incontro al fresco della terra.

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Ho allestito l’occorrente sul davanzale più ampio e luminoso della casa – quello orientato verso il mattino – spodestando per un poco il pappagallo dalle guance rosse, che lì abita e canta. Un gaiwan trasparente, come non ci fosse, che non nasconda l’incantesimo, non mi rubi neanche un istante.

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Ho aggiunto ai petali poche foglie di rosa dal profilo aguzzo, e ancor meno di tè bianco – questo, l’unico possibile -; ho lasciato che per una decina di minuti si raccontassero tinte e sfumature, si scambiassero essenze; nel frattempo osservavo l’allegria multicolore dell’incontro: tavolozza per un quadro lieto… forse un Renoir? Probabile, se nell’attesa ho indossato un cappellino rosso, guanti gialli e un abito gonfio di piccole corolle: c’era un uomo a guidarmi nella danza, tra gli alberi, c’era un gran vento – o felicità -, se il suo cappello è volato via; e dev’esserci stata davvero, se io sorridevo.

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Tagliava delle rose, «Ma quanto saran belle?
questa gialla è uno spettacolo, senti che profumo»,
tutto da sola, io passavo di lì,
«Senti che roba, Secondo», «Saranno rose»,
«Ma senti!», «Orca, però»,
che mi ero dimenticato, io, erano anni, «Stai zitta»,
come un sogno è stato, ero bambino,
c’era il vento, correvo, e l’erba stesa
come la seta, poi niente, è passato, un lampo,
tira pur su, con gli occhi chiusi, neanche il profumo,
più niente, «Bravo coglione, mi son punto».

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(la versione originale in dialetto romagnolo è d’obbligo, per non perderne la dolcezza stralunata: La taiéva dal rósi, «Al sarà bèli? | sta zala l’è un spetècal, sint che udòr», | tótt da par li, mè a paséva d’alè, | «Sint che roba, Secondo», «E’ sarà rósi», | «Mo sint!», «Orca, però», | ch’a m séra zcórd, mè, l’era di an, «Sta zétta», | cmè un insógni l’è stè, a séra burdèl, | u i era e’ vént, a curéva, e l’erba stàisa | cmè la sàida, pu gnént, l’è pas, un lèmp, | téira pò sò, si ócc céus, gnénca l’udòur, | piò gnènt, «Alè, pataca, a m so furè».)

[Raffaello Baldini, Rósi (Rose), in Voci. Tre grandi poeti in musica, NdA Press 2009]

E mi son punta anch’io, al solito (ma gentilmente).

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Poi, alla fine, una chiarezza tinta appena di giallo e di rosa; e un sapore – un’emozione – che non saprei raccontare: un’armonia indicibile e contagiosa.

Neanche il tè più prezioso e raro e prelibato potrà mai rivaleggiare con ciò che ho cercato, raccolto, trasformato con le mie mani: umilissimi petali già un po’ stanchi – gli ultimi – dentro un’alba d’agosto.

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