Ieri – che ormai vista l’ora è già ieri l’altro -, giorno del mio trentaduesimo compleanno, ho cercato e trovato rifugio tra le tele del Bronzino (in mostra a Palazzo Strozzi di Firenze fino al 23 gennaio 2011).
Bronzino, Allegoria di Venere, conservato alla National Gallery di Londra. Un’allegoria dell’amore sensuale, esemplificato dalle due intrecciate figure di Venere e Cupido, l’un l’altro intenti a sottrarsi di nascosto diadema e frecce. Intorno, l’inquietante figura dell’Inganno celata nell’ombra (a destra di Venere guardando il dipinto), con la mano destra al posto della sinistra; la Gioia, che sparge smemorata petali di rose; la Disperazione, che si torce le mani intorno alla testa, persa in un grido cieco; e infine il Tempo, vecchio alato intento a ricoprire la scena con il suo drappo pesante che ogni passione e vita spegne, e cancella.
La risolutezza con cui mal sopporto le sue algide allegorie di Venere è pari a quella con cui patisco il fascino dei suoi ritratti, risalenti al periodo in cui fu pittore di corte della famiglia de’ Medici negli anni di Cosimo I, granduca di Toscana, intorno alla metà del Cinquecento. A dire il vero, però, devo ammettere che la maggior parte dei suoi ritratti maschili non mi entusiasma particolarmente; ma quelli femminili… be’, quelli femminili sono tutta un’altra storia: il Bronzino alle donne riusciva a carpire pezzetti d’anima, così tenaci da essere ancora lì, appiccicati e palpitanti sulla tela, dopo cinquecento anni. E li senti, te ne accorgi, inevitabilmente. Danno i brividi.
Di fronte al celebre ritratto di Eleonora di Toledo (potete esplorarlo nei dettagli qui), con quel vestito di raso e broccato che commuove come fosse volto o ferita, le parole servono a poco, quasi si vergognano della loro pochezza. E ancor meno servono quando ci si trovi occhi negli occhi con Lucrezia Panciatichi, in quello che considero uno dei più bei ritratti che abbia mai avuto la fortuna di osservare dal vivo.
Ma ce n’è uno, che non conoscevo ancora, che mi ha colpita oltre ogni dire; un viso da cui mi sono allontanata a fatica: quello della piccola Maria de’ Medici, primogenita di Cosimo I ed Eleonora di Toledo.
Agnolo di Cosimo di Mariano, detto il Bronzino. Ritratto di Maria di Cosimo I de’ Medici
Avrebbe dovuto recitare un ruolo importante, Maria: sposare Alfonso II d’Este duca di Modena e Ferrara, lei ennesima pedina al servizio della giostra diplomatica. Già fidanzata in culla, morì invece a diciassette anni, lasciando l’ambascia alla sorella Lucrezia, che Alfonso pensò bene di avvelenare dopo neanche un anno di matrimonio, o almeno così si mormora tra le pieghe della Storia… Ma questa, come si dice, è un’altra faccenda.
Buffo come di fronte a questo quadro due tra le mie più grandi passioni – l’arte e il tè – si siano mescolate tra loro, confuse e sovrammesse in un cortocircuito di arbitrarie e romantiche suggestioni, fino a disegnarmi in mente una domanda: quale tè, per Maria?, quali colori e profumi mi evoca questo dipinto, quali avrei desiderato in tazza, osservandolo; quali le avrei dedicato?
A guardarla negli occhi ho scorto un piglio spontaneamente regale ed elegante ma nonostante ciò oppresso dalla seriosità della posa, dal peso dei gioielli pur così discreti, finanche dal velo leggero che le sfuma le spalle: un’insofferenza a stento trattenuta, un lieve sgomento silenzioso, quasi un presentimento.
Un Darjeeling, ho pensato d’istinto: perché intuisco tempesta dietro la sua aristocratica e misurata quiete.
Un succoso e maturo second flush (risultato del secondo raccolto, tra maggio e giugno) che le addolcisca la luce triste dello sguardo con lusinghe decise di frutta e spezie evocanti torte di mele profumate al limone, o focacce d’uva; che la stupisca col colore dell’ambra più pura. Un tè nero Darjeeling proveniente dal giardino di Margaret’s Hope, indugiando su quella triste analogia che vide la piccola Margaret – figlia del gentiluomo inglese proprietario della piantagione a quel tempo conosciuta ancora col nome di Bara Ringtong, perdutamente innamorata del luogo e decisa a tornarvi al più presto – morire per una febbre tropicale (simile morte ebbe la nostra Maria, vittima di una febbre malarica) durante il viaggio di ritorno dall’India all’Inghilterra: da qui il nome del tea garden mutato dal padre, nel 1927, in Margaret’s Hope – la speranza di Margaret – in ricordo di quel suo proposito stroncato.
In casa ho ancora un po’ del buon Margaret’s Hope “Silver Moon” di Thunderbolt Tea: un lotto particolarmente ricco di teneri germogli; la peluria cangiante di cui sono ricoperti, in contrasto coi più scuri toni del marrone, mi richiama alla mente il velluto broccato delle vesti cinquecentesche. L’aroma è fruttato e intenso, il gusto porta chiari cenni di malto e muschio (o moscatello) che stringono appena, con garbo, sul finale.
Mi piace immaginare che a Maria sarebbe piaciuto. Mentre lo sorseggio piano, mi piace immaginarla sorridere.
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Nient’altro che questo: una sinestesia strana e imprevista di cuore e palato, vesti e foglie, tazze e Storia, che non mi dispiacerebbe si ripetesse di tanto in tanto in questa o altre forme :-)