Un tipo da montagna

Da Fabry2010

Ci avviammo lungo un sentiero che s’inoltrava nella pineta. Andavamo alla spiaggia nascosta, l’ultima con un accesso difficile, o non proprio alla portata di tutti (ma alla nostra sì…), e lì non avremmo trovato bambini, ombrelloni, borse e carrelli. Siamo gente essenziale: lasciata la macchina sulla strada in alto, con noi solo un leggero ricambio e un telo da stendere sui ciottoli. Accesso difficile e rischioso, ma non è un fastidio, è quasi un piacere. Nostra è la costa, e tutti gli anfratti e pareti (così supponiamo). Con il caldo e le giornate lunghe si va, ci si arrampica, si discende per gli scogli taglienti, a picco sul mare, ci spinge il desiderio di stare al sole come le lucertole, ferme finché c’è quiete, per l’intero pomeriggio. Certo, la gente arriva comunque, col gommone, colla barca… non sono mai tanti, era ancora presto per la stagione.

Lei era la guida, conosceva ogni angolo, fin da bambina quella la sua casa, quello il suo paese, quello il suo mare, e ora ci tornava con gli amici. A noi dava ospitalità, offriva i letti e la cucina, anche il vino di sera, e allora si tirava tardi: attorno al tavolo non terminavano le battute, e un discorso un po’ serio tirato fuori quasi per caso.

«In quello punto dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare fortemente. È questa per gli uomini (per tacer degli angeli) in questa vita, in quest’altra danza, la felicità della mente? Vedevo questa vita che m’avanza: chiudevo gli occhi nei presagi grevi; aprivo gli occhi: tu mi sorridevi».

Ne ricordo pochi, di sorrisi. Solo quelli che ho immaginato da allora.

«Hai imparato qualcos’altro dopo il liceo? Chiamate un’ambulanza! Come fai a dire ’ste fesserie già a quest’ora? Te non puoi essere ciula tanto grande e grosso, bensì Stanislao Moulinsky!» Accidenti ai nomignoli che mi avevano attaccato.

Nella pineta lei camminava avanti: non una sosta, non un voltarsi indietro. Premura? Cattivo umore? La sua personalissima cautela e diffidenza, che non ho mai visto venir meno? Quella sua strana tristezza? Avrei voluto saperlo. Per gli altri tutto era nuovo, per me le novità erano un assalto. Non me ne rendevo conto: già impazzivo. Non capivo il diventare matto che mi prendeva a sentire la sua voce, accanto a lei, il soffocare sotto i suoi occhi. Non capivo la smania cieca che mi tagliava il respiro, non capivo i palpiti del cuore, mai conosciuti prima, mai più risentiti. Allora davanti a tutti mi davo un contegno studiato, facevo finta di essere piacevole e intelligente, soprattutto tranquillo, scimmiottavo mosse e discorsi di qualcuno che sapesse vivere, ma in realtà non sapevo niente, niente di lei appunto, niente del suo terreno, e poco di me. Nascondevo l’agitazione. Ma perché poi si vive quando non si sa niente? Felicità è un bersaglio mobile, lo abbiamo perso di vista prima ancora di metterci a rincorrerlo. Bisognerebbe farne materia di letteratura.

Camminavamo e non dicevamo niente. Lei ci precedette fino al termine del sentiero, dove la pineta si arresta sopra una vera falesia e di lì occorre calarsi giù aggrappando la roccia, prendendo la via meno insicura, sulla verticale di acqua e rocce acuminate, cinquanta metri più in basso. Ci pensi, che puoi sfracellarti.

Lei, decisa, si calò subito sotto. Aveva probabilmente pensato che per nessuno di noi ci fosse difficoltà, e il rischio… beh, era affar nostro. Ma di lì lei era scesa tante volte, non poteva conoscere l’impressione degli altri all’orrido visto e avvicinato per la prima volta. O forse pensava solo a me – un poco a me deve pur aver pensato allora! – e si affrettava perché la raggiungessi sulla spiaggia dei sassi prima degli altri: avevo avuto tempo di dirle che ero un tipo da montagna, mica un tipo di mare come lei, e i tipi da montagna hanno una certa superiorità sugli altri, non solo in rispetto all’elevazione dei luoghi: sono, dovrebbero essere, pieni di risorse, in buona forma fisica, e badare a se stessi, da soli. E a dire il vero io lì me la sarei cavata bene.

Solo che durante la passeggiata non avevo rotto il silenzio. Voglio dire, a vederla decisa e camminatrice e così assorta, e anche così discosta da noi, non avevo avuto il coraggio, quello che uno se non ce l’ha non se lo può dare, ed è una balla, perché il coraggio non esiste, è paura miscelata con la disperazione – e chi non ha avuto paura? chi non è stato irrimediabilmente disperato? –, insomma non avevo avuto il coraggio nemmeno di avvicinarmi a lei, di toccarle la mano, di dirle qualcosa. Avevo solo dubbi, avevo paura di diventare, per una qualche ragione sconosciuta, una presenza a lei non gradita. Qualcuno che si può sbrigativamente cancellare. Ecco, oggi la paura è rimasta, la disperazione è cresciuta, ma non si sono addensate ed emulsionate come una maionese riuscita, e non sono mutate in coraggio di fare qualcosa, come allora avrei dovuto, e nemmeno nell’insania di rompere tutto.

Non avevo nemmeno avuto il coraggio di camminarle accanto, tra i pini marittimi, le cicale timide di giugno, non ancora sfacciate come sono ad agosto. Camminarle accanto sul tappeto di aghi appassiti, tra il secco e l’umido del bosco e il profumo del mare.

Allora ero rimasto indietro, col mio contegno studiato, colla mia aria di saper vivere, ed ero solo uno che camminava indietro, che perfino la cadenza dei suoi passi deve misurarla su quella di qualcun altro.

Così arrivai alla scarpata con Silvia e il suo ragazzo, e lei già sotto. Silvia era, è ancora presumo, una ragazza della grande città. Il suo ragazzo un tipo di città di provincia. Coppia quindi assai male assortita. E infatti anche allora dovevano aver avuto un bisticcio, quei due, perché pare una cosa naturale assistere come si può una donna impaurita e non lasciarla indietro, e invece il suo ragazzo si era senz’altro avviato un po’ incosciente giù per il roccione senza la sua bella, la sua bellona a dire il vero, perché Silvia era, è ancora presumo, una ragazza grande, e si muoveva sul terreno con una certa circospezione, che comunque era totalmente assente in altri suoi movimenti, massimamente quelli sociali. E il suo ragazzo era stato un bell’incosciente, perché avrebbe fatto meglio ad aspettarmi e a non voler ostentare una destrezza che lui sui passaggi di roccia allora non aveva, e, presumo, nemmeno ora. E il bisticcio era rivelato dal fatto che, in cima alla scarpata, Silvia, forse già a disagio, si bloccò e non fece nulla per dissimulare o minimizzare il suo terrore della parete, della vertigine, del vuoto sotto di sé, e lui invece, già alle prese con i primi appoggi del terzo grado della discesa, non fece cenno di arrestarsi, di aspettare, ma giù progredì senza una pausa, senza voltarsi indietro, senza una preoccupazione per la sua Silvia, che pochi anni dopo quella discesa non sarebbe più stata sua. Forse, se lui allora si fosse preso cura, come pare naturale, delle debolezze di lei, di quelle debolezze femminili, forse, se non fosse sceso subito, anche un po’ goffamente, ma subito senza aspettarla, se fosse tornato indietro quei pochi metri che già lo separavano… anni dopo, magari, chi lo sa?

Eccomi quindi distante da lei, dal lui di Silvia, eccomi a contemplare il panico negli occhi atterriti di Silvia, le lacrime, il tremito delle ginocchia, eccomi a pensare che lì ne andava della nostra giornata, e quindi anche della mia, del mio successo agli occhi di lei come uomo, ehm… ragazzo, di buona compagnia, catalizzatore di un’atmosfera piacevole nel nostro minuscolo gruppo di amici estemporaneamente riuniti per un fine settimana al mare in giugno nel Golfo dei Poeti, stretti tra una mamma, un papà, gli esami, le delizie delle nostre future vite immaginate e il presentimento di urti, botte e ammaccature, e qualcosa di peggio, nelle vite che attendevano.

Lei era già sulla spiaggia, la vedevo (e ancora la vedo) da lassù appoggiarsi a uno scoglio e guardare verso l’orizzonte marino. No, dalla spiaggia serena noi in cima alla falesia proprio non esistiamo. Donna di mare, ecco la tua premura, la fretta di scendere solo per fermarti al pelo dell’acqua, appoggiarti allo scoglio e guardare lontano.

Mentre io mi faccio carico di questo grande mammifero spiaggiato, gettato in alto sugli scogli da un qualche insolito fortunale. Insieme siamo partiti, insieme ci ritroveremo in riva al mare, glielo prometto. Allora, coraggio Silvia! Siamo quasi arrivati. Ti sto vicino.

«È da pazzi, da pazzi! Mi sfracellerò! Bisogna essere incoscienti!»

No Silvia, guarda, la discesa è sicura. Un passo alla volta. Passo dopo passo, appiglio dopo appiglio. Metti il piede qui, in questo incavo. Sposta la mano più giù e afferra la radice, quella, la vedi? L’altro piede adesso, piano, mettilo sulla pietra in basso, guarda, è solida. Silvia aveva un tremito incontrollato alle ginocchia. Temevo che il panico le giocasse brutti scherzi, guardava in basso gli scogli come se avesse un desiderio… un impulso… Fermati un po’. Non guardare giù. Riprendiamo. Hai visto? Sei scesa! Non è difficile. Piano piano, arriviamo in fondo. Ancora un passo. Ancora un altro. Vedi? Qui è più facile. Hai passato la parte più ripida. Brava Silvia! Bravissima!

E così, con grande lentezza (ma io dicevo calma! calma! non c’è fretta! tutto il tempo che vuoi…) giù per l’erta, spostava la coscia, muoveva il gluteo, la spalla, la tetta grande, poi l’altra, i piedoni sugli anfratti del calcare, che l’onda carezza in inverno. Il grande corpo passava sulle asprezze rocciose, le copriva, indugiava, si arrestava, irrigidiva e rilassava, si faceva guidare, obbediva. Forse si fidava in qualche modo dei miei comandi, aveva fiducia nell’elementare, universale compassione verso i segni del dolore delle donne, che non è sempre un buon sentimento, ma è inevitabile come fame e sete, e anzi di per sé cattivo e inutile, perché non puoi, con esso solo, liberare il prossimo dalla sua miseria.

«Grazie». La presi per gratitudine sincera, e intanto avevo stabilito una gerarchia. Un mese o poco più tardi Silvia mi avrebbe tradito, per leggerezza e malvagità, invidia forse, certo nessun interesse altro che quello di ribaltare la gerarchia. Bastò poco, una sottile maldicenza, buttata lì e andata a segno. Un mese o poco più tardi, dopo il mestissimo giorno dell’addio, ero così a terra – arrivano certi momenti – e Silvia ne approfittò e non ebbe pietà, non un ripensamento.

«Grazie», disse intanto, una volta arrivata alla spiaggia di sassi, rassicurata, e già cercava cogli occhi il fidanzato, quello stronzo che non l’ha aspettata, mo’ gliela fa vedere! Insomma era già rimessa abbastanza in sesto per riprendere il bisticcio, rincarando la dose di recriminazioni.

Affari loro. Mi avvicinai finalmente a lei. Mi guardò. Sorrise. Doveva aver approvato in cuor suo l’assistenza a quella specie di amica. Assistenza efficace, competente, accompagnata dal conforto psicologico che si deve alle persone in difficoltà. Avevo guadagnato punti.

Si era tolta il reggiseno (c’era ancora poca gente), e si appoggiava plasticamente allo scoglio, esposta al mare e alla brezza del giorno, come se la roccia divenisse feconda e lei ne fosse un frutto. Non ho imparato nulla dopo il liceo, è vero, non posso conoscere quello che mi passava dentro, non avevo mai avuto quei paurosi sentimenti. Sarà stato il sole del mattino, saranno stati i suoi ventitre anni, e i miei ventidue, sarà stata la suggestione del luogo, o l’emozione della discesa. Lei era una divinità. Sentii il tuono. Figlia del mare, nata dalla roccia, dal continuo rimescolarsi delle materie. L’ultima Nereide. Mi toglieva il fiato.

Trascorsi il resto del giorno accanto alla mia Nereide. Entravamo nell’acqua, nuotavamo. (Io mi arrangio mica male anche in mare). Andavamo sotto, aprivo gli occhi sul fondo e vedevo il biancheggiare di lei, altra apparizione e poi il bruciore del sale. Richiudevo gli occhi e desiderai rimanere per sempre quattro metri sotto il pelo del mare nel Golfo dei Poeti. (Certi desideri hanno dei modi peculiari di avverarsi, che ironia). Uscivamo, ci stendemmo sui ciottoli, il sole ci asciugò.

E non so nemmeno che cosa mi abbia preso un anno dopo, a farmi trecento chilometri in moto da solo, non una sosta, passare al valico l’Appennino, e nulla mi avrebbe arrestato, prendere quella strada, scendere e incamminarmi per il sentiero nella pineta, ricalpestare quegli aghi appassiti da un altro anno di sole e piogge, arrivare al limite della falesia, stivali e guanti, e scendere la scarpata giù da solo, questa sì una cosa da pazzi, in fretta, per arrivare a quello scoglio su quella spiaggia. Avevo pensato… no, non si può pensare una cosa del genere, forse mi era stata incisa in qualche strato profondo mille e mille anni prima, qualcosa dentro di me credeva, e pareva sapere con assoluta certezza che lei da quello scoglio non si era mica allontanata, che con il sole e con il mare e la mattina di giugno lei non poteva che essere lì, nel luogo dell’apparizione. Divinità false e bugiarde! Mi aggirai per la spiaggia per l’intera giornata, tornai allo scoglio ancora e ancora. Quello era il posto, ma quello non era il posto, una catastrofe innominabile aveva cancellato il mondo e al suo posto era stata messa da un dio burlone e assassino una copia insipida e mal fatta, dove non si trova più niente e il cielo è un sudicio telone scolorito.

Tra famigliole al bagno, pattini tirati sul bagnasciuga, gente varia ed estranea, assolutamente indifferente a quello che c’era intorno, mi sembrava che tutto fosse sbagliato. Tornai infine indietro. La salita è sempre meno ardua della discesa, solo che lì l’ordine dei tragitti era invertito rispetto alle mie montagne, e non mi ero nemmeno tolto stivali e guanti sulla spiaggia, ero come un tricheco all’equatore. Quasi in cima alla scarpata, diedi uno sguardo, davvero ultimo, a quel luogo, che era stato luogo di apparizioni e invece non mi diceva più niente, e allora, proprio allora, mancai l’appiglio facile. Presi a scivolare giù, giù sugli scogli acuminati a strapiombo cinquanta metri sotto. Morte certa. Morire sfracellato sugli scogli, accanto ai bagnanti e ai culi in terra. Morire perché quella maledetta roccia sedimentaria si era sfaldata sotto la suola dello stivale, e non me n’ero accorto, suola spessa, zucca vuota. Accade, stava accadendo, è un fatto ineluttabile tanto più grande e necessario di me. L’arenaria, i detriti, il pietrisco, la faccia butterata del calcare, la grattugia verticale del suolo passò a un palmo dalla mia faccia, ogni centimetro quadrato del mio corpo sentiva lo struscio, l’attrito della carne che rotola e cade. Era la fine. Allargai braccia e mani, abbracciai la roccia che mi buttava giù.

E in quel momento successe invece qualcosa che ancora non comprendo. Improvvisamente mi fermai. La caduta semplicemente si arrestò, senza un motivo, come se una mano gigantesca fosse calata dal cielo o sorta dal mare, e mi avesse premuto forte sulla parete. Una singolarità nella legge generale della caduta dei gravi. Piano piano, guadagnai un appoggio solido, poi un secondo, afferrai uno spuntone colla mano, e lento, lentissimo, ridiscesi giù, mi sedetti sui ciottoli in faccia alla parete, e per mezz’ora un tremito incontrollabile mi scosse le gambe, e non potei arrestare i singhiozzi, e il terrore.

Sul far del tramonto, gli stivali in mano, la faccia di chi ha visto il demonio in persona, mani e braccia graffiate, gli occhi rossi, tutto sporco di terriccio, chiesi un passaggio fino al porto a un tizio su un gommone. Non poté rifiutare.

Quel giorno mise una sorta di segno su di me. Il segno del vivere a credito, del vivere di tempo imprestato. Con una scadenza, impossibile da dimenticare veramente, come alcune altre cose. Una scadenza che arrivò dopo quasi vent’anni. Accadde scendendo da un alpeggio in quota.

L’alpeggio in alto è ripido e a metà inverno le chiazze di neve ghiacciano presto con le prime ombre. Camminavo tenendomi parallelo al profilo del crinale, col mio passo costante. C’era abbastanza tempo per tornare, la macchina era alla baita a circa otto chilometri da lì, ma ero solo, e avevo indugiato più del dovuto in vetta. Con la meritata sosta sul basamento della grande croce di ferro, avevo goduto dell’appagamento di arrivare che donano i monti a chi ha la pazienza di salire. Quel giorno si vedeva così lontano… a Sud l’orizzonte azzurro chiaro, e la porzione luccicante del mare, e tutta la linea gialla della costa, e l’ansa della laguna e la manciata di pietruzze bianche e rosse, tremolanti nell’azzurro, che è Venezia vista dai monti.

Ero rimasto alcune ore a guardare quella parte di orizzonte, dimenticando il tempo che passa.

Poi cominciai a tremare dal freddo, e mi avviai giù. Dovevo quindi avere i muscoli rigidi, ed essere davvero poco concentrato, ho un ricordo intermittente di quel giorno dall’arrivo alla cima fino al passaggio sull’alpeggio. Probabilmente ci fu una banale scivolata su una lastra di ghiaccio, in un punto scosceso, tanto che ruzzolai giù, presi un colpo alla testa, e stordito piombai a corpo morto su un palo di ferro conficcato nel terreno, in una matassa di filo spinato arrugginito abbandonato da chissà quanto tempo.

Questa volta mi salvai perché la punta del palo, per pochi centimetri, non recise l’arteria. Sentii uno strattone alla gamba, e dove avevo avuto la coscia osservai due lembi di tessuto muscolare rosso vivo, come aperto da un enorme apriscatole. Due pezzi di carne uguali a quelli sul bancone della macelleria, due bei tagli freschi di fesa. Il quadricipite femorale squarciato fino all’osso, una L per metà della sua lunghezza. La mia fortuna fu di avere con me il telefono, funzionante, carico, e in campo. E anche questa circostanza fu una stranezza, perché la zona dell’alpeggio non era mai stata coperta dalla rete telefonica, né lo è adesso. Invece allora parlai subito coll’operatore del 118. Diamine! Descrissi al telefono la mia ferita con competenza diagnostica e fisiopatologico distacco, osservai che non c’era stato molto “versamento ematico” (sic!), diedi dettagliatamente le coordinate del luogo dell’incidente. Venti minuti più tardi, il rotore dell’elicottero di soccorso.

Oggi cammino aiutandomi con due bastoni, ma non ho rinunciato ad andare per monti. Scalando, dimentico che sono uno zoppo.

E sempre, un poco prima di arrivare sulla cima di una montagna, per un momento credo, così come avevo creduto il giorno del mio incidente, in quella specie di incanto alla vista del mare, che lei venga per un’altra via, e che mi aspetti dove la salita finisce, e che insieme guardiamo l’orizzonte lontano.



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