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Un Tito Andronico possibile, o del torpore teatrale

Creato il 23 febbraio 2012 da Sulromanzo

TitusIstruzioni per l'uso: la presente è una libera espressione di idee a proposito di concetti come trasposizione, interpretazione, lettura critica. Inoltre, mescola specificità di arti diverse, il teatro e il cinema, e volontariamente provoca, pur scritta da un amante del teatro. Con buona pace degli indignati a comando e di «quelli che ne capiscono».

Non molto tempo fa mi è occorso di confrontarmi con quella che è considerata la prima opera di William Shakespeare, vale a dire Tito Andronico (Titus Andronicus). Composta, secondo le ipotesi di datazione, tra il 1588 e il 1591, e rappresentata per la prima volta nel gennaio del 1594, contiene già, seppur velati da anacronismi e piccole ingenuità, i temi che saranno sviluppati a partire da Amleto per arrivare ai tre celebri drammi capitali Otello (Othello, the Moor of Venice, 1602-1604), Re Lear (King Lear, 1605-1606) e Macbeth (1606). La vicenda del valoroso generale Tito è tutta da leggere (per chi ancora colpevolmente non la conoscesse) e conserva, sarebbe quasi inutile dirlo, un'attualità e una vivacità straordinarie, pur a secoli di distanza dalla composizione, oltre che una gestione dei tempi della tragedia che, a livello drammaturgico (si prende con beneficio d'inventario, questa generica indicazione terminologica), la avvicina prepotentemente ad un film d'azione di Michael Bay. Quello che però mi ha spinto a spendere queste poche parole, che sicuramente a più d'uno sembreranno anche poco utili, è stato aver visto, in tempi ancora più recenti, l'interessante trasposizione di Julie Taymor (che non è l'ultima arrivata, e ha nella sua filmografia una varietà di generi che ha quasi del miracoloso) del 1999, Titus.

Ebbene, io, come lo vorrei, un Tito Andronico cinematografico?

Sveglia

Il cupo gorgo in cui viene precipitato il grande guerriero dovrebbe essere ridotto ai minimi termini, ripulito dalla presenza "corale" dei personaggi secondari, e rappresentato con la elegante crudezza dell'ultima parte di Audition di Takashi Miike, le visioni-sogni di Mulholland Drive e la leggerezza di Jeunet nel delizioso Il favoloso mondo di Amelie; vorrei che Tito apprendesse le notizie luttuose frutto delle trappole ordite da Tamora e Aaron con la fierezza e l'allegra sfrontatezza di Björk in Dancer in the Dark, e che con quello stesso atteggiamento si apprestasse al pasto cannibalico da far consumare a quei due scellerati nemici. Vorrei che Lavinia fosse mutilata come in uno splatter, uno di quelli tosti, non certo Hostel; qualcosa come Martyrs, magari; e vorrei che il suo piano di vendetta fosse orchestrato e messo in scena come in un rape & revenge. I sopracitati Tamora ed Aaron, poi dovrebbero assomigliare all'enigmista di Saw, o ai militari giapponesi di Men Behind the Sun. Forse solo così si potrebbe davvero rendere giustizia a un testo feroce che, nato in un contesto come quello del teatro elisabettiano (termine con cui in realtà intendiamo il teatro inglese almeno fino al 1625, per non arrivare addirittura al '42), riceve e rielabora due “classicità”, quella di Seneca e quella di Ovidio, e preannuncia gli imprescindibili sviluppi drammaturgici di Shakesperare.

Solo così, se ci mantenessimo in equilibrio tra raziocinio e passionale violenza, fra ragione personale e ragione di Stato, avremmo la possibilità di accedere a una tipologia rappresentativa che, giovandosi del mezzo cinematografico, grazie soprattutto agli effetti speciali, forma di significazione snobbata, come si conviene a tutto ciò che esula da un attardato neorealismo “italioto”, si collocherebbe utilmente lontana da molte e apprezzate (a torto) messe in scena rassicuranti che confondono la “lettera” del testo, piegandola nel solco della tradizione, ormai lisa, del dramma borghese. Sono le stesse rappresentazioni alle cui prime vedi donne anziane con pellicce addosso e con difficoltà di deambulazione, e che dopo cinque o sei minuti reclinano la testa sulla poltrona, e russano.

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