Pubblicato in Personal miscellaneous da Jacopo il 21 agosto 2013
Quando mi hai telefonato ero in stazione con una bici impacchettata a tracolla. Era il 13 luglio del 2009 e stavo per partire per il Cammino di Santiago. C’era l’idea di farlo insieme quel cammino, ne avevamo parlato tanto, anche se già qualche settimana prima della partenza i tuoi mille impegni avevano avuto la meglio e avevi detto che mi avresti raggiunto a metà cammino. Suonavi ovunque, in quel periodo, non ti si stava dietro. Poi quella mattina mi dissi quello che ormai mi aspettavo, cioè che non saresti venuto proprio. Fra i concerti e la campagna dei pomodori era chiaro che non avevi fisicamente il tempo. Ricordo di essermi sentito deluso e sollevato al tempo stesso, e me ne sono vergognato in seguito. Non capivo se mi avevi avvisato all’ultimo per una forma di imbarazzo bidonaro, o perché avevi davvero provato fino all’ultimo ad incastrare le cose per venire in Spagna a pedalare con me. Forse alla fine quel viaggio non lo dovevamo fare insieme, per mille ragioni. Io mi ero laureato 3 giorni prima, e quel viaggio di 1000 chilometri verso ovest era il mio rito di passaggio all’età adulta, un ritardato bar mitzvah per sancire la mia indipendenza. Chissà se le tue ragioni erano diverse, non credo di aver mai avuto l’occasione di chiedertele per davvero. Mi piace pensare che anche tu sentissi quelle mie stesse impellenze, e in qualche modo, forse, hai trovato il coraggio di fare il passo indietro per dare a ognuno di noi due l’esperienza che la vita gli chiedeva in quel momento. E che il Cammino fosse per te un’esigenza si capisce dal fatto che ti ci sia buttato l’anno dopo, da solo come ero stato io ma per il doppio dei giorni. Con la bici ne ho fatti 15 in tutto, da Irùn a Finisterre, e devo ammettere molto poco poeticamente che alla fine ne avevo abbastanza. Mi ha sempre stupito come i pellegrini appiedati riuscissero a trovare la motivazione per proseguire dopo un mese di cammino. Bisogna essere molto solitari o molto estroversi, per viverla bene. Tu in qualche modo eri entrambe le cose, capace di grandi suonate con la chitarra negli albergue così come di momenti introspettivi in solitaria, due mondi che nel Cammino ho imparato essere ugualmente imprescindibili. Quando sono tornato a Santiago e Finisterre pochi giorni fa il contesto e il mio ruolo erano completamente diversi, e il senso di responsabilità nei confronti dei miei scout ha prevalso sul desiderio elegiaco di andare alla Costa de Morte a vedere le onde maledette. Troppo morboso e da umarell-nero (tu capiresti cosa voglio dire), e comunque non avrebbe fatto alcuna differenza. Quando io sono arrivato di sera a Finisterre era talmente tardi che non ci ho neanche pensato di andare a fare il bagno. Avevo già espletato il mio dovere da pellegrino della domenica bruciando i vestiti al faro, e la mattina dopo mi aspettava il pullman per tornare a Santiago e quindi a Parma. Conoscendoti mi pare strano che tu avessi un ritorno prenotato in anticipo. Troppo vincolante e ansiogeno per l’esperienza che avevi deciso di vivere e assaporare fino in fondo. E i video e le foto girate per mesi fra amici e conoscenti testimoniano tutta l’umanità che avevi raccolto e seminato in quel mese di cammino, con le persone incontrate e le parole buttate giù sul diario malandato, fatte echeggiare nella cattedrale di Parma davanti a migliaia di persone commosse. In tutto questo la cosa che mi fa più incazzare è pensare a come una serie di fatti scollegati e singolarmente innocui possa inanellarsi in una tragedia. Così il mare mosso, quella più oggettiva e se vuoi prevedibile, si incrocia con la lentezza dei soccorsi e con la tua gamba malandata dalla caduta a Bismantova. Uno, due e tre, in fila. Come in John Doe (il paragone fumettistico non potevo negartelo), quando Morte elogia John per la sua “bravura” nel far realizzare tutte le più piccole e strane coincidenze necessarie perché la persona designata incontri il suo destino. Io mi rifiuto di credere che quello fosse il tuo destino, o il disegno pensato per te. Non per la persona che mi regalava fumetti autoprodotti chiedendomi un parere “da esperto”, che suonava per ore soffiando disperato in quel kazoo (e che all’inizio strappava un po’ a tutti un sorriso, solo per poi rendersi conto che sì, però in fondo ci stava), che ci aveva promesso un concerto per l’inaugurazione del nostro rudere a Signatico e che mi chiamava Popo con la “o” chiusa, come solo i miei genitori ormai fanno. Brillava un universo dentro di te, Giulio, e hai lasciato il mondo più povero andandotene via. Tienici d’occhio, da un altro dove e da un altro quando, a questi amici che ogni volta che vedono una chitarra pensano a te.
[Val di Fassa, luglio 2008. Quanto mi avevate fatto scarpinare tu e Andrea, maledetti voi..]