La cornetta era muta. Giovanni provò a schiacciare le levette di plastica sotto al supporto del ricevitore, ma dall’apparecchio non proveniva alcun suono. Si chinò per controllare che la spina fosse inserita, corse dietro al filo con la coda dell’occhio. La placca color senape era per terra: dal muro uscivano i fili esposti, protetti dal nastro isolante. Guasto. Fece un rapido giro dello stanzone e dei due locali laterali per cercare un’altra presa. Non ne vide. Cominciò ad innervosirsi anche lui. Non gli restava altro da fare che raggiungere la donna e aiutarla a battere sulla serranda, nella speranza che qualcuno li sentisse. Erano, ormai, le 19.20 di venerdì. Il quartiere, che brulicava di persone nell’orario lavorativo, si svuotava velocemente verso sera: la maggior parte delle abitazioni, nei dintorni, ospitava uffici. La donna stava picchiando con entrambe le mani, libere dal fazzoletto. Il sangue non le colava più dal naso ma grosse lagrime le scendevano sulle guance. “Ho perso il tram”, singhiozzò, “era l’ultimo”.
“Le do il cambio per un attimo, va bene? Lei si riposi. Dove doveva andare?”, le chiese Giovanni dopo essere riuscito a spostarla dalla porta e a farla sedere su una poltroncina lì accanto. “A casa mia: mi aspettano. Devo preparare la cena. Devo avvertirli. Devo andarmene da qui!”, rispose la donna, il cui tono stava raggiungendo note acute. “Dove abita?”. “Perché vuole saperlo?”. Sembrava lo guardasse con sospetto. Giovanni le sorrise, sperando di riuscire a tranquillizzarla. “Ho il mio furgoncino, parcheggiato dietro l’isolato. Quando usciremo da qui, a casa la porto io. Stia tranquilla: vedrà che in qualche modo risolveremo.” Tacque, parve osservarla, poi ricominciò. ”Che maleducato! Non sa ancora il mio nome: ci credo che non si fida di me! Mi chiamo Giovanni Foschini. Allora, dove abita?”.
Teresa strinse con un gesto automatico la mano che l’uomo le stava porgendo: era ruvida; la presa era salda. Non le piacevano le persone che concentravano la stretta di mano alla sola punta delle dita. Forse di quest’uomo, Giovanni aveva detto di chiamarsi, Giovanni qualcosa, poteva fidarsi. Le stava sorridendo, da sotto in su: era chinato e cercava di smuovere la maniglia di quella maledetta serranda. Teresa respirò profondamente, disse a se stessa che non era il momento per agitarsi e che sarebbe stato meglio si fosse data da fare per trovare una soluzione. “Mi chiamo Teresa Paolucci. Sto nella zona dell’Ospedale; è lontano da qui”. “Sì”, le rispose Giovanni, “è lontano da qui ma non troppo da casa mia: io abito appena oltre il fiume. Allora siamo d’accordo. E adesso riproviamo”.
Giovanni diede un ultimo inutile scossone alla base della serranda, le tirò un paio di calci e, per non lasciare nulla di intentato, provò anche ad urlare con tutta la voce che riuscì a cavare dai polmoni: “Aaaaiiiiiiiuuuuutooooo!”.
Nessuno rispose.
Si girò a guardare Teresa, diede una lunga occhiata al locale, poi si avviò verso la stanza sul fondo. “Ma dove sta andando?!”, esclamò Teresa, con le orecchie che le rintronavano ancora per il frastuono. “A prendere i miei libri: se dobbiamo aspettare qui che qualcuno ci trovi, sarà meglio tenersi occupati. Lei legge?”.