Leva quella robaccia che ti fa andare il cervello in pappa. Amore, cuore, dolore... robaccia per donnine stupide!, le diceva entrando in casa e prima del consueto giro di ricognizione. Perché il Signor P. aveva l’abitudine, ancora con paltò e quotidiani sotto il braccio, di verificare per primo il lavello della cucina dove mal sopportava di trovare rimasugli di cibo così come tracce di calcare. Non hai imparto un cazzo!, le diceva con un’espressione di chiaro disprezzo se trovava la pasta fuori dai barattoli o la marmellata fuori dal frigo o il tappetino del bagno appena appena umido. Sei una bambina cretina!, diceva a bassa voce come parlando tra sé mentre, già che c’era, dava uno sguardo anche agli armadi e ai cassetti della biancheria: sei sciatta!, disattenta, una povera imbecille!, le diceva serio, guardandola come se avesse commesso il più efferato dei delitti. Se Miriam reagiva nel modo giusto, P. poteva decidere di punirla in maniera commisurata all’errore, o lasciarla in ginocchio al centro della stanza mentre lui, prima di andarsene senza salutare, mangiava, leggeva i quotidiani o guardava la tivvù.
Una volta, il Signor P. lanciò la frittata contro il muro e non si fece più sentire per un mese. Solo in seguito scoprì che era stata la cipolla a dargli noia: una submisive deve essere perfetta, Miriam, le aveva lasciato detto sulla segreteria telefonica. Dopo quella lunga assenza, comparve senza preavviso sulla porta e con un paio di biglietti per la Turandot. Quella, Miriam conserva ancora la ricevuta del taxi, fu una serata perfetta. O quasi. Il Signor P. arrivò nel tardo pomeriggio e scelse per lei l’abito che avrebbe indossato. Per evitare perdite di tempo aveva comprato più paia di calze e di diverse sfumature di grigio. Dopo averle preparato il bagno, lavato la schiena, asciugato con cura i capelli e pettinati come piacevano a lui -legati stretti sulla nuca e pieni di fermagli affinché nemmeno un ricciolo potesse ribellarsi al suo volere- l’aveva vestita da capo a piedi compresi i gioielli: un giro di perle e basta. Arrivati a Caracalla le aveva preso la mano e baciata più volte, quasi quella fosse una storia normale, un rapporto di libero scambio e di amore. Dopo, mentre Miriam saltellava verso il portone come una bambina, P. le aveva annunciato che sarebbe tornato a casa e che ne aveva abbastanza di lei per quella sera. Dopo tanta gioia il dolore è necessario, aveva detto con una certa indifferenza e tenendosi a qualche metro di distanza, mentre gli occhi di lei si facevano liquidi nel buio dell’androne.
Così, il grande giorno era arrivato. Per i suoi trentasette anni Miriam aveva organizzato una festa, un drink per gli amici più cari alla vineria di Via dei Serpenti. Dopo la Turandot sarebbe stata la prima volta che si vedevano fuori dal suo appartamento. Aveva tirato fuori un vecchio abito si sua nonna in crepe de Chine rosso ciliegia che ben si adattava alla sua corporatura esile e alla pelle bruna. Era andata dal parrucchiere e dall’estetista, aveva comprato un paio di sandali gioiello alti al punto giusto e aveva fatto attenzione affinché niente, nemmeno lo smalto che aveva ai piedi, potesse dispiacergli.
P. era stato chiaro. Togliti quella robaccia dal viso!, le diceva, e Miriam correva a struccarsi. Piantala di vestirti da troia!, e Miriam dava via ogni abito troppo aderente o troppo corto. Non sei un maschio, cazzo, metti i tacchi!, e Miriam chiudeva nel baule i suoi vecchi e cari anfibi londinesi. L’appuntamento con gli altri era alle nove mentre P. le aveva promesso che sarebbe arrivato appena finito in redazione. Vengo, vengo, le aveva detto spazientito al telefono, e aveva aggiunto un ben augurale: Sei una donna lagnosa e stupida!, non so chi me lo fa fare a venire.
Passate le dieci Miriam vide P. attraverso la vetrina. Era al telefono e faceva un sacco di moine. Forse parlava con sua moglie o con il figlio, pensava la festeggiata mentre scartava regali e raccontava agli amici di sé e del lavoro e di tutta la quantità di cose belle che le stavano capitando in quelle settimane. P. entrò in vineria visibilmente scuro in viso. Poi, presentandosi agli amici cambiò espressione e mood, riservando a Miriam pochi sguardi e tutti ostili. Così, la donna cercò di far passare il più rapidamente possibile quell’ora e salutati gli amici si avviò verso casa con il Signor P. che le camminava accanto in silenzio, come in silenzio salì le scale e in silenzio fece il rituale giro di ricognizione.
L’avrebbe lasciata lì da sola proprio in quella serata speciale? Era da lui, sì, era una possibilità da non scartare. Oppure l’avrebbe messa faccia nel lavello affinché tirasse via con la lingua anche la più piccola briciola di pane? Magari una microscopica mollichina rimasta incastrata nel maledetto tubo di scarico? Tremava e si domandava cosa aveva combinato stavolta di cui non si era resa conto. Adesso levati di dosso quella roba, e Miriam si spogliò, aspettando ogni volta il suo assenso, Voltati e piegati sul tavolo. Immobile!, e P. lanciò la sua giacca sul divano. E non voglio sentire un respiro, nemmeno uno, aggiunse l’uomo chinandosi sul corpo di lei che già fremeva.
I colpi furono tanti e tutti diversi. Diverse la pause tra uno e l’altro, più lunghe o brevissime, dilatate e calme le parole pronunciate ora con tenerezza ora con furore, in un tempo dal ritmo imprevedibile e incostante. Quando il Signor P. sedette sul divano e le ordinò un bicchiere di bourbon Miriam sentiva solo un intenso e sottilissimo bruciore, che partiva dai talloni e arrivava alla nuca. Ti basterà almeno per tre settimane, le disse, e adesso, prova a immaginare cosa dovrai subire per arrivare alla perfezione. Miram s’inginocchiò e gli passò la lingua sulle scarpe. Bene, disse lui, Forse cominci a ragionare.