Lo ricordo bene. Avevo bisogno di una storia diversa, avvolgente. Una di quelle che ti lascia senza parole e forse anche con un fil di fiato, perché tutto il resto va aggiunto solo alla fine. A volte si resta paralizzati, muti, di fronte ad un racconto che strappa l’anima, perché sorprendente. Eppure ho avuto l’impressione di sbriciolare i pensieri che si allineavano confusi come bambini all’uscita da scuola. La sensazione di perderli come un amore impossibile, viscerale, carnale e pieno, è stata assopita dal disordine di emozioni scatenate da una colata di capitoli. Cercavo tra gli scaffali una storia che avesse il sapore forte dai sentimenti veri, straordinariamente sinceri, velati anche da una morbida ipocrisia per riuscire ad andare avanti, sino alla fine con dolore. La scelta giunse quasi per caso. Sentì addosso la passione di un romanzo piccante con ricette, amori che stordiscono.
In “Dolce come il cioccolato” di Laura Esquivel, edito da Garzanti, la godibile sapienza narrativa affiancata alla raffinata arte culinaria racconta del carattere di una donna, Tita, che fa del cibo lo strumento espressivo tra rito, invenzione, intima conquista, ma rifiuta l’assurda tradizione familiare: la figlia minore non può sposarsi perché ha il dovere di occuparsi della madre sino al giorno della sua morte. Lei conoscerà l’amore e conoscerà il profumo della vita tra i fornelli. Nata sul tavolo della cucina fra gli odori del minestrone che la cuoca di casa stava preparando, Tita quando venne al mondo già piangeva lacrime abbondanti, forse perché annusava nell’aria che le sarebbe stato negato il matrimonio. Poco più che adolescente conobbe Pedro. I due vennero travolti da un sentimento più grande di loro. In casa della ragazza, però, vigeva il patto dell’obbedienza e della sottomissione. Per Tita, quindi, il matrimonio è impossibile. È la madre a negarlo. Ma complice il destino beffardo, i due si ritroveranno a vivere sotto lo stesso tetto come cognati, costretti alla castità e tuttavia legati da una sensualità incandescente. Lei legata a lui per sempre, con gli sguardi, con i piatti preparati per sciogliere la passione, lui avvinghiato al desiderio di averla in attesa di una nervoso colpo di scena. Pedro non potendo resistere ai profumi che lo raggiungevano, quelli soprattutto della passione, si dirigeva in cucina per rimanere pietrificato sulla porta di fronte alla posizione sensuale di Tita.
Fusione di sguardi eccitati, un unico respiro agitato per uno stesso desiderio d’amore da mettere a fuoco, lento. I due amanti erano una scatola di cerini. Nessuno dei due poteva accendersi da solo. Avevano bisogno dell’ossigeno che riempie i polmoni, ma anche dell’intesa, del desiderio che offusca mente e cuore. Poi sarebbero stati una candela, il fiato di una stessa persona. Cibo, parole, sussurri, sguardi, tutto fa scattare ed accendere il fiammifero, il calore dentro. Per molti anni è stato necessario prendere una serie di precauzioni perché nessuno li vedesse, sospettasse, per non farsi sentire. Alla fine la fiamma si affievolirà, poco a poco, e la scatola di cerini, se umidi, non servirà più. Tita conosceva i suoi detonatori, la sua passione, l’amore per il suo primo amore, aveva sentito freddo per molte notti, ma sebbene altre avessero cercato di spegnere i fiammiferi, lei ne aveva custodito la scatola piena. L’emozione forte accende tutti insieme i cerini che abbiamo dentro di noi. Arriva il bagliore, il fuoco e quello che non riusciamo a vedere normalmente illumina per un istante, lungo quanto una vita perduta, emozioni che non si dovrebbero soffocare perché figlie della legge del cuore.