Abbiamo chiesto ad alcuni economisti che cosa pensano della decrescita. E' compatibile con l'uscita dalla crisi e con l'aumento dell'occupazione? Nei giorni scorsi hanno risposto Luigino Bruni e Mauro Gallegati. Prossimamente risponderanno Pierluigi Porta e Marco Dardi. Oggi:
Professore emerito di Economia politica, Università Ca' Foscari di Venezia
Coloro che criticano la logica della "crescita per la crescita" hanno ragione. Per troppo tempo si è ignorata la sfida che i limiti ecologici pongono alla crescita economica.Ma qual è il messaggio che viene dai sostenitori della "decrescita", come Serge Latouche? Scrive Latouche: "decrescita non identifica né lo stato stazionario dei classici dell'economia, né una forma di regressione, di recessione o di crescita negativa, e neppure la crescita zero [...] Decrescita non è il termine simmetrico di crescita, ma è uno slogan politico, [...] una parola d'ordine che significa abbandonare radicalmente l'obiettivo della crescita per la crescita. [...] Più che di decrescita bisognerebbe parlare di a-crescita, utilizzando la stessa radice di a-teismo poiché si tratta di abbandonare la fede e la religione della crescita, del progresso e dello sviluppo" (S. Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 11).
A me sembra che questo voglia dire che si deve rifiutare la logica di una crescita fine a sé stessa, e che invece occorre che lo sviluppo dell'attività economica sia subordinato a finalità di miglioramento della qualità della vita per tutti i componenti della comunità sociale.
Più interessante per me come economista è la posizione di Herman Daly ( Oltre la crescita, Edizioni Comunità, 2006). Daly fonda l'idea di "steady state" sulla necessità indiscutibile di mantenere costante quello che egli chiama "throughput", ossia il flusso di materia ed energia che proviene dall'ambiente e che si metabolizza attraverso il sub-sistema economico della produzione e del consumo per poi ritornare all'ambiente come rifiuti.
Daly, come del resto Nicholas Georgescu Roegen prima di lui, raccomanda cioè di tener conto dei vincoli che provengono dalla applicazione delle leggi della termodinamica: più materia ed energia vengono assorbite dall'economia, e maggiore è la creazione di entropia [energia disordinata che si disperde, n.d.r.] dei suoi manufatti, meno materia ed energia rimangono per ricostruire le strutture e i servizi degli ecosistemi che sostengono l'economia.
L'attività economica dunque non può far crescere la materia, può solo trasformarla, e nel trasformarla genera una dispersione di energia.
Da ciò Daly fa discendere la necessità di una costanza dell'indicatore universalmente accettato per misurare la crescita, il Prodotto Interno Lordo (PIL). Egli ammette, anzi richiede, solo cambiamento qualitativo, nel modo cioè in cui un flusso costante di PIL viene ottenuto. Ma questa conclusione non consegue necessariamente dall'accettazione delle leggi della termodinamica. Perché mai il valore reale, non solo quello monetario, dell'attività economica non potrebbe espandersi massimizzando la riciclabilità dei prodotti e minimizzando l'entropia, e quindi rispettando la costanza del "throughput"?
Certo questo richiede l'accettazione di un limite alla crescita e il rifiuto dell'idea di "crescita per la crescita". Lo stesso Daly del resto, in una testimonianza alla Commissione sullo Sviluppo Sostenibile del governo inglese nel 2008 ( A Steady-State Economy, Sustainable Development Commission, UK, 2008), afferma che un miglioramento qualitativo che risulti nella crescita di un PIL sempre meno "material-intensive" sia da perseguire dove possibile, accettando però che un limite esiste.
La critica di Daly alla crescita economica si fonda su un confronto tra costi e benefici della crescita stessa. Grazie all'estensione raggiunta dal sistema economico, i servizi degli ecosistemi e il capitale naturale sono diventati scarsi, e ogni loro ulteriore riduzione costituisce un costo sociale non ignorabile della crescita economica. Daly sostiene che questo costo sociale ha superato i benefici aggiuntivi della progressiva trasformazione fisica degli ecosistemi in sistemi dell'economia.
Che in molti, troppi casi questo sia avvenuto è innegabile. Ma ciò non autorizza a escludere la possibilità di modificazioni strutturali nel modello di crescita tale da evitare che continui ad avvenire. Abbiamo bisogno di una crescita limitata dai suoi costi sociali, ma soprattutto di una crescita diversa.
Lo stesso Daly ammette che una espansione economica è necessaria per far fronte ai bisogni materiali dei paesi poveri. Il problema allora diventa: come confrontarsi con la ineludibile domanda di crescita economica che verrà nei prossimi anni soprattutto dai paesi in via di sviluppo, per superare carenze ancora drammatiche in termini di raggiungimento di "standard" minimi di sufficiente qualità della vita.
Purtroppo bisogna riconoscere che nei paesi in via di sviluppo la domanda di crescita non è solo guidata dalla esigenza di soddisfare questo obiettivo; essa deriva dalla domanda, di un numero che va da due a tre miliardi di persone, di raggiungere lo stile di vita della "classe media" dei paesi oggi maturi. Ed è questa domanda di imitazione passiva del modello di crescita già sperimentato dai paesi avanzati che costituisce la più grande minaccia alla sostenibilità della crescita stessa.
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