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Una cultura del leggere che entri nelle strade

Creato il 12 luglio 2010 da Fabry2010

Una cultura del leggere che entri nelle strade.

In un articolo di alcuni mesi fa Boris Groys sosteneva che la direzione presa dall’umanità conducesse verso un nuovo totalitarismo globale, un nuovo ordinamento e, secondo certi filosofi, addirittura verso una nuova politeia platonica.
A detta dello studioso, se nel ’900 sono state realizzate le aspirazioni utopiche del secolo precedente (coi risultati che tutti conosciamo) nel XXI sembriamo essere tornati indietro al XIX secolo: libero scambio globale, terrorismo, pirati, guerre coloniali, culto delle celebrità, fashion magazine. Le uniche differenze, sottolinea Groys, “sono i film al posto dei romanzi.”
Che ci si riconosca o meno in esse, le considerazioni di Groys si inseriscono in una più ampia gamma di interventi e studi che negli ultimi anni stanno cercando di analizzare le istanze della contemporaneità, nel tentativo di riuscire a tracciarne gli scenari futuri.
Il tanto celebrato Villaggio Globale sembra essere scivolato in una slavina di cui è difficile intuire i contorni, dove tutto è divenuto periferia, incluso il centro stesso dell’Impero: la civiltà occidentale nella sua ultima personificazione, gli Stati Uniti.
Da una parte è possibile riconoscere, ancora forte e inquietantemente più subdola, la tendenza a uniformare (la mainforce, il mainstream) ovvero ad accentrare, livellare, controllare, eliminare differenze e margini d’approfondimento. Dall’altra persistono correnti minori, centripete, decostruttiviste (in senso deriddiano) che paiono le uniche in grado di ricominciare a strutturare il mondo, scendendo nelle viscere di una realtà sempre più fatta di superfici, ovvero sempre più sulla via di divenire, finalmente e definitivamente come nelle migliori previsioni del caso, un simulacro di se stessa.
Le considerazioni possono essere molte e differenti, non solo in ambito letterario.
Che l’Occidente e con lui il resto del pianeta siano precipitati in una seria crisi di sfiducia nei confronti del presente e della propria capacità di immaginare un futuro sembra essere oramai assodato.
Che tale sentimento abbia finito per raggiungere ogni strato della società (ricchi, meno ricchi, indigenti, poveri) è un altro fatto riconosciuto, al punto tale che anche i tentativi d’infondere ottimismo da parte del mainstream non sembrano in grado di ottenere i risultati desiderati.
Lo stesso mainstream sembra agonizzare nel tentativo di rivitalizzarsi. Fare affidamento ai sistemi di superamento crisi-sopravvivenza finora utilizzati sembra essere divenuto impossibile. Non ci sono più magnifiche sorti e progressive in cui credere (almeno, non al momento) al di là di una vaga idea di tecnologia in grado di risolvere, un giorno, i numerosi gap in cui siamo finiti per franare (relazioni tra individui/con se stessi/ con la natura/con i propri prodotti).
Secondo Lucio Villari se “nei primi decenni del XX secolo c’era ancora  l’idea di inventare tutto ciò che si potesse inventare, con la convinzione che l’uomo potesse governare tali invenzioni, oggi si corre il rischio che siano le invenzioni a governare l’uomo. E non per colpa delle macchine o delle invenzioni, ma per la poca consapevolezza filosofica nei confronti di questo processo innovativo.”
Ecco il Nuovoevo (il nuovo Medioevo) da tempo cominciato, il cui inizio verrà tracciato dagli storiografi del domani tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, con le torri gemelle a suggellarne l’entrata ufficiale sulle scene.
Possiamo ignorarne i termini, ma quando il sentimento di sfiducia raggiunge le strade, dopo essere stato a lungo preannunciato in altre sedi, significa che il processo è ben oltre il proprio principio.
La domanda è, in quali termini può la letteratura legarsi a tali eventi? E quale può essere, in questo senso, il suo ruolo nel determinare quelli futuri?
Difficile dare risposte chiare. La letteratura è come ogni espressione umana nella nostra Storia uno degli specchi in cui possiamo rifletterci. Di più. Nel suo affondare le radici ai primordi della civilizzazione umana (nel suo essere la più antica forma di riflessione su se stessi elaborata dalla specie umana) è il primo, dei nostri specchi. È il più antico e il più veritiero. Siamo ciò che abbiamo scritto. In questo senso, non possiamo mentirci. Anche quando tentiamo di farlo, finiamo sempre per dirci la verità.
Tutto vero, d’accordo, ma di quale letteratura stiamo parlando?
L’articolo di Valerio Evangelisti “Una narrativa adeguata ai tempi” è in questo senso uno degli interventi più lucidi e incisivi sull’argomento. Il suo contrapporre a una produzione “minimalista” – che si muove “entro contesti tenui e dalle luci soffuse, in cui si annusa la polvere e il borotalco” ovvero estranea ai tempi presenti e sterile in rapporto a quelli futuri – una “massimalista” – ovvero di contrasto, che si fa registrazione e critica, ma anche ricerca, sfida – centra il cuore della questione, e apre squarci inquietanti e fecondi sullo scenario letterario non solo del nostro paese.
In un dialogo giovanile che ebbi anche la sventura di pubblicare, uno dei personaggi si domandava come fosse possibile che tra tutti i mezzi di comunicazione inventati dall’uomo non ce ne fosse uno capace di farci comunicare con i nostri genitori (la conclusione era che “non esistono mezzi di comunicazione”).
Oggi appare sempre più chiaro che un tale mezzo di comunicazione in realtà esista, e sia legato alla nostra capacità di raccontare la vita, d’immaginarne i confini, e, nei limiti del possibile (e dell’impossibile), di tentare di donarvi un significato.
Tale è stata, fin dall’inizio della civilizzazione, la funzione del “raccontare storie”.
In Italia, forse il Paese più passivamente medializzato dell’Occidente, la domanda è come questo possa avvenire e con quali risultati.
È una domanda che pare assumere i lineamenti di una sfida difficile da vincere, soprattutto in tempi di depressione, non solamente economica.
Se da una parte ci si lamenta che nessuno legge, dall’altra non sembra che ci si preoccupi più di tanto di creare interesse nella lettura. Un humus, un terriccio, un milieu in cui poter coltivare, nutrire, crescere una predisposizione che non abbiamo mai avuto. Nel Belpaese le nuove generazioni paiono addirittura avere una minore propensione a leggere di quelle precedenti (unico caso al mondo). In altre realtà (su tutte la decadente America, che comunque, pur con risultati disastrosi, perlomeno si dibatte nell’agonia) la letteratura sembra aver accolto la sfida ed essere oggi come ieri strumento di penetrazione del reale, su più livelli e in più contesti. All’appiattimento di certe produzioni hollywoodiane si contrappongono istanze differenti, mosse da curiosità e da necessità oramai inevitabili di rinnovamento. La letteratura è nei giornali, nella rete, nelle serie televisive, nei fumetti, nelle piccole produzioni cinematografiche. Non esiste realtà che non ne sia, in una maniera o nell’altra, influenzata. La vitalità letteraria di un paese, d’altra parte, la sua capacità di raccontare storie e avere un pubblico, non può essere scissa dalla realtà che l’ha prodotta. Essa si nutre di ciò che vive al di fuori di sé prima ancora di divenire ciò che è.
Pare non esserci proprio questo, in Italia.
Ci è sempre mancata una cultura del leggere che entri nelle strade, e che sappia dare supporto a quella produzione letteraria (che comunque c’è) che lotta per la sua sopravvivenza e per la sopravvivenza di chi ancora ha la forza di lottare. Ma che forse non potrà  farlo più a lungo, se lasciata sola.
Altrove, Letteratura è divenuta ogni cosa, anche fuori dai libri. Il mondo scritto ha saputo conquistarsi spazi anche al di là delle pagine stampate, divenire elettronico, se necessario, entrare nei bar, invadere i cinema, usare tutti gli strumenti di cui oggi ci si può dotare, inclusa ogni tecnologia in grado di veicolare le parole. Così, anche, si nutre la capacità di scrivere una storia.
Ma qui?
Se il centro del mondo sta poco elegantemente crollando (e come tutti i centri in sfacelo irrigidisce e acuisce i suoi strumenti di controllo) le periferie hanno il potere di risorgere, di resistere, di rivendicare il proprio diritto a raccontare.
Tutto sta che ci sia ancora qualcuno là fuori disposto ad ascoltare.


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