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Una gondola a Izmir

Creato il 08 maggio 2013 da Davideciaccia @FailCaffe

Immagina di poter andare via, di scegliere una città dall’altra parte del mediterraneo bella e calda durante il giorno, malinconica al tramonto. Questo è il viaggio in Turchia di una nuova scrittrice per Failcaffè.

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di Silvia Cardascia

Maggio. Ad Izmir è già estate.

La città sboccia di odori, profumi, colori. L’aria afosa, il vociferare del vento.

Ragazzi sdraiati sull’erba al calar del sole. Bevono birra, chiacchierano, si rilassano al ritmo del mare e all’ondeggiare dei traghetti che galleggiano sotto un cielo ambrato e un sole pallido pronto a fare capolino.

Smyrna (o Σμύρνη, come la chiamavano i padri fondatori greci), la perla dell’Egeo, antico porto di mare, di culture, di civiltà, di poeti, di leggende e di imperatori. Da Bione a Omero a Carlo Magno. Figlia di imperatori e sultani. Conquistata e sconfitta. E riconquistata. E distrutta da un feroce terremoto. E venduta, alla Grecia. E infine turca. Un condottiero, una nazione, un incendio. E Izmir, una città che sorge dalle ceneri di un passato incostante e contraddittorio. Un po’ come i turchi, un po’ come me.

Ricordo ancora con fotografica lucidità, nonostante sia trascorso esattamente un anno, le prime sensazioni provate nel calpestare il suolo “izmiriota”, se così posso definirlo, prendendomi indegnamente licenze letterarie che appartengono solo agli illustri poeti.

Ricordo ancora, era una splendida giornata di fine Aprile, calda e raggiante, proprio come oggi. Ricordo Izmir e ricordo me ad Izmir. Il mio sorriso raggiante e quella curiosità irriverente che mi aveva trascinato dall’altra parte del Mare Nostrum, in cerca di una scossa, di altro, di perché. Con una laurea fresca in tasca e tanta voglia di imparare. Ero lì, sul Kordon, questo lungomare, lungo e largo tanto da perderci la vista e i pensieri dentro. E quel mare. Di un azzurro cristallino. Una porta sull’orizzonte del futuro, un futuro che in quei giorni era ancora limpido, sfocato, colorato a tempera con qualche sfumatura di pastello.  Ero in Turchia! Di nuovo! Dopo l’esperienza istanbuliota mozzafiato, stringi petto, vissuta tutta d’un sorso, di nuovo in Turchia! Non mi ci volle molto a capire che la bella Izmir ha poco a che vedere con la caotica, metropolitana, sporca, rumorosa e incantevole Istanbul.

Izmir, così azzurra e cristallina, poco in comune con la frenetica “Urban Jungle” istanbuliota. Izmir è un po’ come il Salento: Lu sole, lu mare, lu ventu..

Izmir è una ragazza gitana, è suono di musica stridente al sapore di raki, Izmir è un vecchio pescatore che raccoglie ricordi sparsi nel mare all’alba e li colleziona all’imbrunire. E’ una vecchia signora che si affaccia alla Grecia con le spalle rivolte alla Turchia. E’ finzione. E’ vociferare di suoni acri e dolci. E’ la cadenza dialettale di un poeta ubriaco.

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Perché la Turchia? Perché Izmir? Perché sei venuta? Noi tutti cerchiamo di scappare. Mi dicono da queste parti. Ma poi non scappano. No. Perché qui si vive bene. Ai turchi piace mangiare, bere caffè, tè, birra, immersi in una nube di chiacchiere e di fumo. Un po’ come a noi italiani del resto. Che differenza fa se al posto di una chiesa c’è una moschea? Se per di più prevale la solita usanza del “credo ma non pratico”?

La Turchia è l’Italia negli anni del boom economico. Un capitalismo in via di sviluppo. Un’esplosione di i-phone comprati a rate per scaricare application e condividere foto sul web.

I turchi sono gente bizzarra. Inizialmente sono ospitali fino a diventare invadenti. Curiosi di scoprire, di fare domande, poco attenti alle risposte. Poi diventano diffidenti, o forse timidi, o forse intimoriti.

La Turchia è un bazar di culture, di pensieri, di quartieri, di modi di essere. Una passaggio tra due continenti, tra due mondi. La Turchia è il retroscena dell’Europa e l’anfiteatro dell’Asia.

Nelle strade di Izmir ed Istanbul, ai ritmi metallici della musica elettronica dei club si alterna il canto melodico e cadenzato dei muezzin. Al benessere ostentato dei cellulari e delle apparecchiature supertecnologiche si alterna una povertà penetrante e radicata nelle fila di quelle strisce di popolazione che non compaiono né sull’editoriale dell’Economist né sulle classifiche del Time.

Il turco medio vive ancora nel ricordo ingiallito di quel condottiero idolatrato, venerato e celebrato. Quel condottiero che creò La nazione, Lo Stato, La bandiera rossa come il sangue versato dai suoi valorosi soldati. Il turco medio non accetta il tono sarcastico di chi crede che Ataturk in fondo sia stato un dittatore come tanti altri, seppure fosse un uomo di tutto rispetto con tanto di cappello, cavallo, buone intenzioni e sangue freddo. Non lo accetta perché in fondo non lo capisce. E lo difende fino in fondo, poiché il senso di appartenenza alla sua bandiera è tutto quello che gli resta.

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L’Europa rappresenta il modello ma anche la frustrazione di non poterne condividere i frutti (e i debiti, dico io), oltre che la beffa per le speranze al vento. Umiliati e offesi, direbbe Dovstoeskij.

L’Est e il passato ottomano puzzano di marcio. Un passato da rinnegare, un confine da ignorare e un presente da inseguire chissà dove.

Tutto è cangiante, un popolo che oscilla tra est e ed ovest, che volge a destra e sinistra, proprio come la sua bandiera si muove al fluttuar del vento sui traghetti che trasportano passeggeri e pensieri dall’Europa all’Anatolia. E’ un cambiamento costante, figlio illegittimo della storia, perché non si ricorda delle sue radici. Più che trasformazione, metamorfosi.

Non ricordo chi descrisse la Turchia come un transessuale. Uno stato che si è spogliato integralmente del suo passato imperiale e i cui connotati sono stati ridefiniti e ridisegnati grossolanamente da un soldato entusiasta, ma frettoloso al punto che nel definirne velocemente i contorni dimenticò di dare una forma ai contenuti.

La Turchia è un controsenso moltiplicato per una dozzina di contraddizioni.

Forse è per questo che mi rappresenta, forse è per questo che a modo mio me ne sono innamorata.

Tutto questo azzurro che riempie i polmoni di Izmir, tutto questo mare che affoga pensieri, lacrime, delusioni, ma anche speranze, amori e ricordi.

Ultimamente ho una visione. Immagino me stessa su una barca che galleggia sul mare. Li, sul molo. Poi guardo meglio, metto gli occhiali (perché sono mezza cieca, miope, astigmatica, non l’ho ancora capito). Penso sia un veliero. E invece nella penombra  intravedo una gondola. Che buffo, penso, una gondola a Izmir, che assurdità.

Poi rifletto ancora. Sorrido e mi emoziono. Penso a quanto sia magico. Veder galleggiare sul mare della mia nuova terra la gondola della malinconia, simbolo della bella Venezia e del mio paese che giace proprio sull’altra sponda del Mediterraneo. Così lontano. Così vicino. Se mi affaccio meglio lo vedo li, un po’ incrinato, in penombra, al calar del sole. Una gondola ad Izmir. L’intersezione di due culture, di due tradizioni, di due civiltà, di due mondi che si accompagnano a braccetto, di due identità che non si annullano ma si arricchiscono a vicenda, si conoscono, e infine si sorridono,  e si riscoprono in una nuova realtà. Un po’ turca un po’ italiana. Come me. Come una gondola a Izmir che galleggia sul mare.

 


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