di Elena De Santis
Lo sa bene Giorgio Manzi – docente di Paleoantropologia, Ecologia umana e Storia naturale dei primati all’Università di Roma La Sapienza, e direttore del Museo di Antropologia “Giuseppe Sergi” – autore del bellissimo saggio Il grande racconto dell’evoluzione umana (edito da Il Mulino in un volume riccamente illustrato). Il prologo si apre nei toni della favola: <<In principio era la scimmia. Anzi, una miriade di scimmie.>> Fissare questo principio con precisione, dati alla mano, costituisce già un primo intoppo nella narrazione, tuttavia l’indagine paleoantropologica ha imparato a tenersi larga, a ragionare cioè per milioni di anni, un tempo quindi non storico (non umano); la dilatazione temporale si dispiega su un arco così ampio che davvero la nostra mente fatica a comprendere: un conto è usare l’espressione “milioni di anni”, un altro è capire esattamente di che cosa si tratti. Quando la favola comincia il protagonista non c’è, entrerà in scena solo più avanti (molto molto più avanti). Homo sapiens, com’è noto, non discende in modo diretto e lineare da una scimmia. Lo si sente ripetere ormai come un mantra: homo sapiens non discende da una scimmia antropomorfa ma da un antenato (ominide bipede) che ha in comune con essa. E Manzi ci ricorda che possiamo stimare fra cinque e sei milioni di anni fa <<l’epoca della separazione dall’antenato che abbiamo avuto in comune con le scimmie antropomorfe africane.>> Piccole e parziali tracce fossili di questi ominidi dei primordi vengono addirittura fatte risalire a ben sette milioni di anni fa. Ce la siam presa davvero comoda.
I primi esemplari di Australopithecus risalgono a circa quattro milioni di anni fa. Gli Australopithecus, e specie affini, si diversificarono e adattarono progressivamente in vaste aree del continente africano. Possiamo figurarceli in parte simili agli scimpanzé, comunque bassini, incurvati e pelosi. Ce n’è voluta di strada per arrivare alla plasticità ellenica di un David Beckam! Il passo successivo (e Manzi lo illustra dettagliatamente) sarà la conquista graduale della postura eretta e dell’allargamento della scatola cranica, requisiti necessari per il grande salto evolutivo. Esemplari di uomini <<dal cervello relativamente piccolo ma dalle gambe buone>> con in mano una prima rozza dotazione di selci e bifacciali, risalgono a circa un milione e mezzo di anni fa (non più solo sul territorio africano, ma disseminati anche nel Vicino e Medio Oriente, in certe aree dell’Asia e dell’Europa); l’adattamento alle diverse tipologie climatiche ha discriminato caratteristiche confluite poi in specie distinte (si pensi ai Neanderthal). Gli homo sapiens propriamente detti (cioè noi) cominciarono a profilarsi all’incirca duecentomila anni fa, prima in Africa (mamma Africa) e poi in altri territori. Cosa ci abbia favoriti rispetto ad altre specie è difficile dire, combinazioni fortunate senz’altro (sempre ammesso che possa considerarsi una fortuna l’essere divenuti uomini!).Il racconto dell’evoluzione umana è un prodigioso viaggio nel tempo, un viaggio che parte dai primati e giunge a destinazione sull’uomo passando attraverso una miriade di scimmie (dalle antropomorfe bipedi africane del primo Pliocene fino all’emergere del genere homo). Difficile arginare la suggestione: su simili scale temporali l’oggettività scientifica si tinge inevitabilmente di favolistica. <<La domanda sta lì – scrive Manzi – antica come noi stessi: chi siamo e da dove veniamo?>> Ricostruire il cammino evolutivo dell’uomo, ripercorrere quei passi, rintracciare quelle impronte… e il pericolo, avverte Manzi, è quello di sconfinare nei miti delle origini. Scriveva Langdon Smith in Evoluzione (1906): <<Quando tu eri un girino e io un pesce, ai tempi del Paleozoico, il mio cuore traboccava di allegra vitalità perché ti amavo già allora. Poi siamo stati anfibi, squamati e codati, abbiamo dondolato dagli alberi della giungla, ci siamo appostati in attesa del mammouth, abbiamo inciso ossa e dipinto caverne. E così, di vita in vita e di amore in amore, percorriamo la catena del cambiamento. Il nostro amore è antico, e così le nostre vite: chissà che un giorno non rivivremo tutto ancora?>> Il racconto dell’evoluzione è attraversato da un vento metafisico: come non avvertirne le vibrazioni? <<Argomento e compito delicati – spiega Manzi – quelli della paleoantropologia, dunque: un po’ scienza e un po’ narrativa. Non basta però raccontare, è necessario avere in mano dati concreti, proporre modelli e saperli mettere alla prova di nuove evidenze. Bisogna insomma poggiare i piedi su un terreno solido, usare tutte le strategie e le tecniche del metodo scientifico e infine, solo allora, iniziare a narrare. Questo fa la paleoantropologia…>>Giorgio Manzi – già autore per Il Mulino di Homo sapiens (2006), L’evoluzione umana (2007), Uomini e ambienti (2009, con A. Vienna) e Scimmie (2011, con J. Rizzo) – ha tutte le qualità del buon divulgatore scientifico, e il saggio Il grande racconto dell’evoluzione umana lo attesta pienamente. Un manuale chiaro, lineare, strutturato in dieci grandi aree e corredato da un nutrito repertorio iconografico (tra fotografie, grafici e illustrazioni), il tutto sorretto da un linguaggio estremamente scorrevole, godibile, specialistico quanto basta. Alla divulgazione scientifica si accompagnano stralci narrativi affascinanti e coinvolgenti: <<Ci troviamo quasi in corrispondenza del centro geometrico del Sahara, il più grande deserto del mondo, in un giorno assolato di gennaio. Due giovani antropologi fanno una pausa per mangiare un boccone; vogliono anche approfittare di questo momento per conversare un po’ fra loro, mentre gli altri sono tornati all’accampamento, dopo una mattinata di terra, sassi e polvere, di pale, di spatole, di pennelli e di setacci. Sono seduti su massi di arenaria, uno di fronte all’altro, all’ombra del riparo di Uan Muhuggiag, sulle montagne del Tadrart Acacus, in Libia. È uno dei posti più belli al mondo, dove i colori della sabbia variano dal rosso al crema, passando per tutte le tonalità del rosa e del giallo-ocra, in raffinato contrasto con il grigio scuro della roccia che domina il paesaggio, punteggiato dal verde sbiadito di sparuti ciuffi di vegetazione.>> Un altro aspetto ben indagato da Giorgio Manzi è quello relativo ai graffiti e, più in generale, alla cosiddetta “arte rupestre”, dalle prime forme di scultura elaborata (Venere di Laussel e Venere di Willendorf) alle proto pitture di Lascaux, Niaux e Altamira. Ottima la bibliografia ed estremamente utile, per una più agevole comprensione del testo, il puntuale indice analitico.Elena De Santis
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Cover Amedit n° 17 – Dicembre 2013. “Ephebus dolorosus” by Iano
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 17 – Dicembre 2013
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