Dopo Nella casa (2012) e Giovane e bella (2013), Francois Ozon prosegue la sua indagine sul desiderio arrivando a creare una sorta di trilogia che, in Una nuova amica, trova il suo suggello, il risultato più riuscito, stratificato, maturo.
Dal desiderio/piacere di guardare (ed essere guardati) al desiderio di fare sesso per puro piacere al desiderio più intimo e sottaciuto per un gay: essere donna.
Ozon con sensibilità e precisione, sagacia ed eleganza, sonda con maestria l’animo umano e con Una nuova amica va oltre la questione dei (trans)gender, del travestitismo, del confine tra etero e omosessualità. Perché Una nuova amica non è un’indagine solo sulla transessualità, ma sulla sessualità a 360 gradi, di uomini e donne, sulle molteplici indoli che si nascondono in noi, su quelle che solo un trauma può smuovere.
Proprio come Claude (Ernst Umhauer) in Nella casa oltrepassava il confine della privacy altrui e Isabelle (Marine Vacth) in Giovane e bella varcava il confine “sessuale” della sua (tenera) età, Una nuova amica scavalca il confine del comune pensiero sulla “diversità”. Due film, Nella casa e Giovane e bella, che ricorrono anche figurativamente in Una nuova amica. Il primo nelle ambientazioni, in quelle villette a schiera di gusto americano; il secondo sin dalla prima inquadratura del film, in quelle labbra tinte di rossetto che in Giovane e bella giganteggiavano e abbellivano anche i muri della metrò parigina.
Una nuova amica è probabilmente l’opera più bella, compiuta e personale di Ozon. E il regista francese lo sa, ne è cosciente. Tanto da concedersi un cameo importante, in cui ci mette la faccia (e la mano) pur nella penombra di una sala cinematografica. Ozon sa che Una nuova amica è il “suo” film, quello che in un certo senso “chiude il cerchio” e lo riporta a quel folgorante corto d’esordio, Une robe d’été, in cui due ragazzi (alla scoperta di sé) si divertivano a vestirsi da donna. Una nuova amica è quindi un Ozon iper-autoriale, che (si) cita (e ama farlo), che guarda agli intrighi psicologici di Hitchcock (è palese Psycho nel bipolarismo imparruccato che accosta David a Norman Bates) e di De Palma, per non parlare di Almodovar (lampante Tutto su mia madre nella fisionomia travestita dello strepitoso Romain Duris).
Un Ozon audace, dunque, che non disdegna né rinuncia a mostrare il backstage del travestitismo. Un Ozon ardito che si concede molti nudi e un paio di pruriginose scene di sesso in cui ci scappa anche un “furtivo” pene in vista. Ma anche un Ozon che non rinuncia al suo più amabile tocco melodrammatico (ce l’ha nel Dna…) e che sa elaborare un finale magnifico, allo stesso tempo aperto e limpido quanto basta per lasciarci in testa il tarlo di un piccolo grande dubbio. Chapeau!
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