[Immagine: Carlo Carrà, Le figlie di Loth (1919)]
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di Giuseppe Panella
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«Non so se tra roccie il tuo pallido / Viso m’apparve, o sorriso / Di lontananze ignote / Fosti, la china eburnea / Fronte fulgente o giovine / Suora de la Gioconda: / O delle primavere / Spente, per i suoi mitici pallori / O Regina o Regina adolescente: / Ma per il tuo ignoto poema / Di voluttà e di dolore / Musica fanciulla esangue, / Segnato di linea di sangue / Nel cerchio delle labbra sinuose, / Regina de la melodia: / Ma per il vergine capo / Reclino, io poeta notturno / Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo, / Io per il tuo dolce mistero / Io per il tuo divenir taciturno / Non so se la fiamma pallida / Fu dei capelli il vivente / Segno del suo pallore, / Non so se fu un dolce vapore, / Dolce sul mio dolore, / Sorriso di un volto notturno: / Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti / E l’immobilità dei firmamenti / E i gonfii rivi che vanno piangenti / E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti / E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti / E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera»
(Dino Campana, La Chimera)
1. Un filosofare pallido e assorto
La produzione culturale (letteraria, poetica, filosofica, storico-politica, storico-artistica, finanche utopistica) di Vittorio Vettori è stata sterminata. Analizzare tutte le opere da lui prodotte nei più svariati campi del sapere umanistico è probabilmente impossibile per ora. Anche chi si è posto il compito improbo e meritorio di antologizzare le sue opere più significative non ha potuto che selezionare proficuamente i suoi testi più noti e probabilmente più duraturi. Di se stesso Vettori avrebbe scritto per interposto personaggio in un romanzo, L’amico del Machia, che forse avrebbe meritato maggior fortuna sia critica che di lettori avvertiti (1):
«Vita e scrittura, scrittura e vita, in una circolarità inesauribile: “Ho scritto e pubblicato molti libri, magari troppi. Ne scriverò e pubblicherò, se Dio mi dà vita, forse altrettanti e di più”. Ma in Vettori è sempre stato vigile il rifiuto della letterarietà formale (“un qualunque letterato perditempo”), e altrettanta è stata la diffidenza e l’inimicizia per una letteratura astiosa nei confronti della vita e della storia (“una assurda turris eburnea”). I suoi libri testimoniano un continuo mescolarsi delle ragioni dell’intelletto e del cuore, una cercata confusione, una voluta impurità e imperfezione. Anche i suoi generosi, spesso inascoltati, tentativi di gettare ponti fra le culture e le ideologie, invocare una legge nuova d’armonia per i suoi connazionali divisi e lacerati da guerre mondiali che erano divenute guerre intestine e civili, testimoniavano un impegno che dalla letteratura volgeva verso altre mete e altri fini. Per pretendere di dialogare, occorre conoscere anche la cultura dell’altro, del potenziale dialogante. Vettori si è sempre impegnato su versanti che non erano propriamente i suoi ma finivano per diventare anche i suoi. Il paradiso della cultura, come lo chiamò Costantin Noica, ma era un paradiso conquistato a duro prezzo: “Le vere élites si riconoscono soltanto, secondo la figurazione evangelica della lavanda dei piedi, dal maggior servirsi e umiliarsi”. C’era infatti molta umiltà in quell’uomo, pur orgoglioso e forte di una volontà indefettibile. L’umiltà che resisteva alla facile ironia di tanti nichilisti contemporanei, sempre irridenti nei confronti di chi tenti un approccio e un collegamento fra le sponde separate e immobili di un certo persistente dualismo italiano. Il manicheismo era la bestia nera dell’idealista Vettori » (2).
La volontà di conciliare vita e scrittura si risolveva sempre, tuttavia, in un privilegio della scrittura come espressione profonda e sentita di una regola di vita. A parte un libro polemico di riconciliazione, Fascismo postumo e postfascismo che esce a Parma per i tipi di Guanda nel 1948, sono gli interessi poetici (Poesia a Campaldino, Pisa, Libreria dei Cavalieri che è del 1950) e quelli storico-filosofici a predominare in Vettori. Un libro dedicato a Benedetto Croce (3) apre questa sua stagione di riflessioni sulla natura filosofica dell’arte che proseguirà nel 1966 con i due volumi (poi tre) su Giovanni Gentile (4). Quella del filosofo di Castelvetrano è, in realtà, una biografia concettuale e non può essere compresa nella sua titanica progettualità senza confrontarsi con le opinioni espresse da Vettori nei confronti di Benedetto Croce. Lo stretto legame tra i due pensatori, infatti, è, per Vettori, un punto di non ritorno nel tentativo di esaurirne la dimensione filosofica. Al loro rapporto di amicizia come costruzione di un pensiero filosofico originale e come progetto di elaborazione di un nuovo orizzonte culturale per l’Italia sono dedicate molte pagine significative dei suoi volumi storico-filosofici:
«In altre parole, l’attualismo gentiliano (e non quello della “scuola” gentiliana, che è tutt’altra cosa) è qualcosa di più di un sistema: è sostanzialmente un impulso di radicale rinnovamento, che ha agito a suo tempo sullo stesso sistema crociano, con funzione di stimolo risvegliatore (esattamente alle origini del sistema, sul piano degli studi di estetica e su quello degli studi di economia e di politica), e che può e deve essere nuovamente impiegato, ora che ci troviamo dinanzi ad una cultura a cui il lungo pontificato laico di don Benedetto ha insegnato e trasmesso il gusto dell’infallibilità, vale a dire del dommatismo. E non si vuol negare che Croce, solitario pontefice culturale del primo Novecento italiano, sia stato un buon papa. Croce ovviamente era Croce, mentre i numerosi papetti di oggi, crociati o anticrociani che siano, sono – senza quasi eccezioni – desolanti mediocrità. Ma il fatto è che la odierna cultura ufficiale riproduce, sia pure a un livello infinitamente più basso, quella che Carlo Michelstaedter ebbe a definire la “sciagurata” abilità crociata nel risolvere astrattamente tutti i problemi. Nella meccanica sequenza delle astrazioni Croce inseriva il suo genio essenzialmente poetico, trasformando il facile compromesso dialettico proprio della logica formale in raro equilibrio di pensieri e parole viventi, affermando insomma di là dai contenuti effimeri del so sistema la presenza durevole di una personalità straordinaria»(5).
Croce come scrittore e come poeta – sembrerebbe valutarlo Vettori; un pensatore sistematico si sarebbe forse potuto adombrare di questa definizione apparentemente così riduttiva ma il fatto è che la dimensione più significativa cui il filosofo napoletano può essere ricondotto in prima istanza non è tanto quella del “deserto ghiacciato” dell’astrazione quanto quello della capacità di leggere la realtà con gli occhi del concetto e non solo della pura empiria. Inoltre in Croce (come pure in Gentile) la verità del mondo non è mai respinta in un lontano oltre della razionalità logica ma è sempre lì, presente, a portata della mano di chi si confronta e relaziona con essa. Non solo filosofi teoretici (quali certo non aspirarono ad essere in maniera esclusiva) ma pensatori capaci di abbracciare con la potenza della riflessione intuitiva e, insieme, razionale dello spirito tutte le più vaste gamme dell’agire umano – a partire dalla poesia per finire alla politica passando attraverso l’agire pratico dell’etica e la riflessione storico-storiografica. Nel ricostruire il pensiero crociano e ri-fondarne la potenzialità ermeneutica, Vettori è netto nell’individuarne le quattro fonti principali, anzi i “quattro autori”che principiano la sua ricerca ulteriore – come Giambattista Vico aveva già fatto per la propria opera nell’Autobiografia:
«Nei quattro campi di attività culturale nei quali ebbe specialmente a operare Croce, e cioè nel campo della critica e storia letteraria. In quello della storiografia civile, in quello del pensiero politico, in quello della speculazione sui massimi problemi, i momenti di apogeo della cultura italiana vanno intitolati rispettivamente a De Sanctis, a Oriani, a Machiavelli, a Vico. Ci è parso pertanto che il proposito di celebrare davvero l’attualità di Croce dovesse tradursi in quattro indagini particolari rivolte in primo luogo ad accertare l’ideale continuità di De Sanctis Oriani Machiavelli Vico nell’opera crociana, e quindi a proiettare gentilianamente in avanti quest’opera, superandone gli esterni limiti e utilizzandone la forza segreta in un più pieno e convincente dispiegamento di quei quattro impulsi fondamentali. In altre parole, ci siamo mossi, a partire dal Croce e con animo non scolasticamente gentiliano, in direzione di un nuovo De Sanctis, di un nuovo Oriani, di un nuovo Machiavelli, di un nuovo Vico. Per il primo punto, abbiamo addirittura azzardato una nuova storia della letteratura italiana, basata su presupposti di critica strutturale un po’ diversi dallo strutturalismo di cui son piene oggi tante accademiche carte. Per il secondo punto. Siamo partiti dall’esigenza di un “nuovo risorgimento” che ridia agli Italiani – in chiave postfascista e fuori da ogni sciovinismo e provincialismo – il senso non retorico ma operativo della loro realtà di popolo e di nazione. Per il terzo punto, abbiamo insistito sul concetto di Stato come società in interiore nomine e come dimensione attivistica dell’esistenza in quanto attività culturale, giuridica ed economica. Per il quarto punto infine, abbiamo cercato di delineare non una nuova filosofia che non avrebbe alcuna ragion d’essere nella nostra epoca chiaramente postfilosofica, ma un nuovo umanesimo collegato alle posizioni dottrinarie raggiunte dall’ultimo Gentile e tuttavia aperto anche a esperienze rimaste estranee a Gentile in una prospettiva trinitaria che ci ha suggerito l’adozione del termine “triumanesimo”. A ciascuno di questi punti è dedicata una parte del nostro lavoro» (6).
In effetti, i quattro punti investigati da Vettori e contrassegnati ciascuno con il nome di un autore considerato notevole e (in parte) definitivo riguardo l’aspetto del pensiero crociano studiato nella propria specificità rappresentano i quattro momenti più significativi del percorso letterario e culturale di Vittorio Vettori stesso.
La vicenda letteraria, il senso di una “nuova” cultura civile, una dimensione politica scevra, tuttavia, da una riduttiva appartenenza partitica e la possibilità di una riflessione teorica non sistematica sono le direttrici lungo le quali si è sviluppato e articolato il tragitto umanistico dello studioso di Castel San Niccolò di Arezzo.
Il passaggio dalla filosofia monistica di Croce, sia pure suddivisa nella qualificazione articolata dei “distinti” che la realizzano come dispositivo non riducibile alla pura e semplice unità determinata dello Spirito, a una dimensione tripartita della verità raggiunta ad opera della filosofia e comprendente in sé anche il senso religioso della vita e la sua dipendenza da un Essere trascendente e non solo trascendentale.
Il rapporto tra Croce e Gentile sarà poi il punto di partenza della sua riflessione e della sua ricostruzione del filosofo di Castelvetrano – in particolare i punti di unità e di sutura dei due sistemi di pensiero senza dimenticarne, tuttavia, le spesso notevoli differenze:
«Ma non in tutto e non sempre il Croce sintonizzò col Gentile. Nei Lineamenti di logica (1904-1905), la Storia, come ebbe a scrivere Carlo Antoni, “diveniva in Croce conoscenza razionale e concreta, distinta dalla mera intuizione artistica e dalla astratta classificazione naturalistica”. Simultaneamente l’arte era relegata nella sfera prelogica: e il Croce in tal modo si privava di un mezzo potente per la comprensione stessa “razionale e concreta” della Storia. Ciò ovviamente non poteva che urtare contro il fondamentale presupposto gentiliano dell’unità dello Spirito, Tanto meno il Gentile poteva accettare la distinzione crociata tra “teoria” e “pratica”. Come ha ottimamente scritto Balbino Giuliano, “Gentile si distacca da Croce per questo: che invece di considerare l’universale realtà dello spirito inizialmente distinta nelle sue diverse forme di attività, considera l’iniziale realtà dello spirito come atto puro, che col processo dialettico si determina nelle sue diverse forme”. Un secondo motivo di dissenso si rivelò fra l’aperta moralità gentiliana e il moralismo crociano: e qui non si trattava di una questione puramente speculativa. Speculativamente, anzi, Croce finiva col dar ragione al Gentile e alla sua risoluzione dell’economia nell’etica entro l’unità dello Spirito, quando (in Elementi di politica, Laterza, Bari 1924) affermava che, per dirla con le parole del fedelissimo Carlo Antoni, “la politica non distrugge ma al contrario genera la morale perché nel processo della vita spirituale la posizione dell’utilità deve essere seguita, superata e compiuta dalla posizione della moralità”. Più tardi (La Storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1938), Croce ebbe a indicare nell’attività etica il centro motore della vita spirituale e anche politica tutta intera. Apparentemente Croce aveva dunque superato in senso gentiliano il suo antico machiavellismo e neo-machiavellismo, fondato sulla tesi della piena autonomia del momento politico-economico rispetto a quello morale. In effetti tale apparente superamento serviva a Croce per infrangere nei confronti della Storia in atto il famoso giudizio per cui ogni accadimento storico sarebbe giustificato. La pregiudiziale etica, che in Gentile si traduceva in un costante stimolo moralizzatore, in un’assidua testimonianza di umanità, in uno sforzo ininterrottamente volto a trasformare la realtà fascista in una democrazia corporativa dove potessero coincidere l’individuo e lo Stato come protagonisti dinamici di un autentico sistema di libertà , in Croce valeva invece come elemento di contingente polemica antifascista. La moralità gentiliana guardava al futuro, ed era tutta impegnata nella libera preparazione e nella fervida costruzione dei “nuovi tempi”; il moralismo crociano, che in fondo non aveva impedito al filosofo di giustificare e accettare da principio la “politica del manganello”, si esauriva in una ingenua e gratuita idealizzazione ed esaltazione del giolittismo. In definitiva il Croce, proclamandosi sacerdote della storia e cioè a dire della libertà, creava un olimpico rifugio alla sua vocazione contemplativa di artista» (7).
Per Vettori, come si può rilevare da questa pur lunga ma necessaria citazione, tra i due filosofi la differenza non era poi tanta ma, in certo modo, essa veniva rovesciata. Non era Gentile che si ritrovava in Croce con tutte le dovute e rilevanti differenze, ma era Croce che “imparava” da Gentile il senso di un’unità originaria dello Spirito che poi poteva dividersi in “quattro spicchi” (come scriverà Montale in una sua celebrata poesia). Allo stesso modo, era Croce che riconosceva nella categoria dell’etica la dimensione più pura dell’economia e della politica e riviveva nel Vitale il senso profondo della moralità che era stata già di Hegel. Di conseguenza, il pensatore del Casentino riverberava in Gentile il pensiero di Croce e non ne faceva un suo allievo poi rinnegato (e rinnegatosi) e passato armi e bagagli al nemico. In questa sua ipotesi, Vettori si scontrava, quindi, con una tradizione vulgata di pensiero storiografico invalso, che vedeva il pensiero idealistico di Gentile un travisamento di quello crociano e tendeva a relegarlo in un angolo, quasi una sua sbiadita copia di scarto. Era, naturalmente, un’opzione ideologica questa e tendeva a sottovalutare le comuni matrici del pensiero dei due filosofi: entrambi partiti da Hegel quale fonte privilegiata del marxismo critico (Croce in specifico da un rapporto magistrale e assai proficuo con il Labriola del Manifesto dei comunisti) ed entrambi approdati a un suo rovesciamento idealistico dove al posto della materialità dei rapporti sociali veniva posta l’epifania salvifica del dettato storico (8). Questo assunto, rilevato da Vettori, non bastava però ad acquietarne l’Unruhe strutturale e lo metteva nella necessità di analizzare Gentile oltre Croce e oltre se stesso, al di fuori delle scuole e delle accademie, nel tentativo di vedere all’opera quel “lievito” filosofico che si intrudeva nel pensiero profondo del pensatore siciliano. Quel “lievito” (su cui Giuseppe Prezzolini insistette a più riprese) era il rapporto con il Cristianesimo nella sua componente più genuinamente cattolica:
«Cominciamo dalla componente cattolica. Si sa quale sia il punto di partenza della filosofia gentiliana: la creatività del pensiero. Ma in Gentile la creatività del pensiero s’illumina via via di una luce cristiana sempre più certa, e alle abili circonlocuzioni crociane sul “perché non possiamo non dirci cristiani” si sostituisce in Gentile una netta ed esplicita coscienza religiosa rilevata già da Giuseppe Prezzolini nel vecchio libro sulla Coltura italiana (9) e ribadita da Gentile stesso con accenti di appassionato vigore lungo tutto l’arco della sua lunga predicazione. Leggiamo nei Discorsi di religione (1920): “L’attualismo ritorna alla originaria intuizione del Cristianesimo”. E nella Filosofia dell’arte (1931): “L’amore, di cui tante volte nella filosofia dell’arte la parentela con l’arte stessa produttrice di bellezza, va ricondotto alla base della vita dello spirito”. E arriviamo allo splendido discorso fiorentino tenuto nell’Aula Magna dell’Università il 9 febbraio 1943 e pubblicato nella sansoniana “Biblioteca del Leonardo” col titolo La mia religione. Aveva scritto il Gioberti: “L’autorità insegna la lettera, la libertà afferma lo spirito”. E il Gentile, ecco, riecheggia con un accento profondamente manzoniano, anteponendo “alla severa e cupa intolleranza di un Bellarmino… l’amore tutto umano e ilare di un Filippo Neri, indulgente e premuroso nella convinzione che il peccato altrui è anche peccato nostro”. Sfogliamo le pagine dell’incandescente discorso fiorentino e leggiamo poco più oltre: “Dio si umanizza; e l’uomo nel dialogo e nella società con Dio (spirito, persona) si accerta che egli come uomo non è nulla di immediato, ma pensa vuole ama e insomma si realizza eternamente nella vivente attualità della sintesi di divino e umano”. E ancora: “La religione stricto iure non ha storia. La religione cresce, si espande, si consolida e vive dentro la filosofia, che elabora incessantemente il contenuto immediato della religione e lo immette nella storia”. Dove, a ben guardare, la dottrina gentiliana della religione come forma oggettiva dello spirito cede il passo alla dichiarata esigenza della religiosità del pensiero, cui tocca di presiedere a quel dinamico processo di incivilimento che necessariamente si differenzia dallo statico universo della contemplazione e della preghiera, mentre tuttavia ne accoglie e sviluppa i presupposti spirituali» (10)
La religione è, secondo Vettori, il lievito che attraversa tutta la produzione filosofica di Gentile e la rende capace di una totalizzazione più aperta dello spirito rispetto ai “distinti” di Croce. E’ questa stessa capacità totalizzatrice e unificante del suo pensiero che rende il filosofo della Scuola Normale in grado di raccogliere l’eredità più avanzata del Risorgimento e farsi promotore di una filosofia politica che aveva l’obiettivo di raccogliere la spinta del liberalismo del Risorgimento, quella più adeguata a cogliere l’emergenza dei nuovi tempi emersi dalla crisi dello Stato giolittiano verificatasi subito dopo la Prima Guerra Mondiale. Rispetto a Croce, ammonisce Vettori, il Gentile discepolo di Silvio e Bertrando Spaventa (e ammiratore di De Sanctis e di Angelo Camillo De Meis) non poteva vedere che nello Stato, fino ad allora debole propaggine degli interessi di pochi, era concentrata la salute futura della nazione italica.
Il Gentile che fuoriesce dalle molte pagine dedicategli da Vettori è, insomma, un pensatore in cui la spinta del pensiero è relativa e riprodotta nell’azione che esso riesce a produrre. L’”atto puro” che si trasforma in “fatto” è il lascito della filosofia idealistica come sintesi assoluta tra spirito e realtà attraversata da essa. Il “pensiero pensante” che lo costituisce è la rivendicazione della capacità innovativa dello spirito che investe il suo opposto per riportarlo a se stesso (da cui l’errore presente in Hegel che avrebbe voluto riportare il “pensato” alla dialettica della soggettività con ciò che è pensabile e non al soggetto pensante come momento “puro” del pensare stesso). E, infatti, nella Teoria generale della logica, Gentile scriverà che i problemi dei soggetti singoli e delle loro contraddizioni “non si risolvono se non quando l’uomo arrivi a sentire i bisogni altrui come bisogni propri, e la propria vita, quindi, non chiusa nell’angusta cerchia della sua empirica personalità, ma intesa sempre ad espandersi nell’attuosità di uno spirito superiore a tutti gli interessi particolari, e pure immanente nel centro stesso della sua personalità più profonda”.
In quest’afflato quasi religioso nell’ampio arco della sua riflessione teoretica, Vettori, dunque, ha voluto rintracciare il messaggio più duraturo lasciato dal filosofo dell’”atto puro”. Un Gentile, di conseguenza, non filo-autoritario o meramente dogmatico (come pure autori di fina grana dialettica come Herbert Marcuse hanno voluto interpretarlo [11]) ma attraversato da un “lievito” di volontà dialettico capace di attraversare il mondo non solo per interpretarlo ma per trasformarlo con la sua potenza conoscitiva. Tuttavia, quello di Vettori, anche a prescindere dalla ricostruzione storiografica da lui privilegiata, risulta oggi un “filosofare pallido e assorto” (per dirla sempre con Montale): la sua visione ormai nostalgica di un tempo che non c’è già più, dove Croce e Gentile sono stati sopraffatti dalla pletora dei loro seguaci e astratti continuatori che di un pensiero vivo e pulsante fatto di continue scoperte e aggregazioni vitali hanno fatto una machinette ripetitiva e un po’ atona, è malinconica, un po’ delusa dal tempo del presente e sospesa in bilico su un passato che ormai non potrà mai più ritornare (e che forse neppure si vorrebbe essere condannati a ripetere).
2. Tra Dante come faro e il Novecento come approdo
Proprio per questo motivo, dopo la figura magistrale di Giovanni Gentile, viene ad occupare un posto di rilievo nell’ideale canone vettoriano quella di Dante Alighieri poeta e pensatore: il maestro “in cielo” che è capace di parlare anche sulla terra a coloro che sanno ascoltarlo. A Dante, dunque, la produzione dello studioso di Castello San Niccolò dedica uno dei posti privilegiati di ricostruzione, di analisi, di lettura e di interesse teorico:
«La poetica di Dante è essenzialmente una poetica dell’attenzione. E a questo punto sarà bene rimeditare ciò che scriveva in proposito la compianta Cristina Campo in una pagina di quel dimenticato ma autentico e prezioso capolavoro che si intitola Il flauto e il tappeto: “Un poeta che ad ogni singola cosa del visibile e dell’invisibile prestasse l’identica misura di attenzione, così come l’entomologo s’industria a esprimere con precisione l’inesprimibile azzurro di un’ala di libellula, questi sarebbe il poeta assoluto. E’ esistito ed è Dante”. L’attenzione di Dante aveva dunque in se stessa l’assolutezza del soprannaturale. Come dire che Dante era sì l’assoluto poeta del mondo terrestre e della condizione umana, ma lo era in virtù di una sua prevalente attitudine estatica e/o visionaria, da cui gli veniva la possibilità di abbracciare con sguardo sovrano la terra, vincolandola con sacro legame alla patria dell’anima (dell’estasi, della visione, della parola, del pensiero, del canto) e cioè al cielo» (12).
Il Dante di Vettori è saldamente ancorato alla terra, certamente, ma la sua prospettiva resta sempre, anche nelle sue pagine più legate alla dimensione mondana, quella di “trasumar e organizzar” (per dirla con l’ultimo Pasolini). Nelle ultime pagine di un romanzo poco noto di Honoré de Balzac, I proscritti, la figura di Dante emerge con tutta la forza di un guerriero animoso, con tutta la potenza mistica di un visionario e con la tua gigantesca figura di un poeta epocale:
«I due proscritti, i due poeti caddero sulla terra da tutta l’altezza che ci separa dai cieli. Il doloroso sconvolgimento di quella caduta corse come un secondo sangue nelle loro vene, ma sibilando, rigirandovi punte aguzze e cocenti. Per loro, il dolore fu in un certo modo come una commozione elettrica. Il passo pesante e sonoro di un uomo d’armi, la cui spada, la corazza e gli speroni producevano un rumore ferruginoso risuonò nella scala; subito dopo, davanti allo straniero sorpreso si mostrò un soldato.
– Possiamo tornare a Firenze – disse quell’uomo la cui voce vibrante parve dolce nel pronunciare delle parole in italiano. – Che cosa dici? – domandò il grande vecchio.
– I bianchi trionfano! – Non ti sbagli? – riprese il poeta.
– No, caro Dante! – rispose il soldato la cui voce guerriera espresse i fremiti delle battaglie e le gioie della vittoria.
– A Firenze! A Firenze! Oh! Firenze mia! – gridò vivamente DANTE ALIGHIERI, che si alzò in piedi, guardò in cielo, credette di vedere l’Italia, e diventò gigantesco.
– Ed io? Quando sarò in cielo? – disse Godefroid che restava con un ginocchio a terra davanti al poeta immortale, come un angelo di fronte al santuario.
– Vieni a Firenze! – gli disse Dante con un tono di voce compassionevole. – Su, vieni! Quando vedrai i suoi amorevoli paesaggi dall’alto di Fiesole, ti crederai in paradiso –
Il soldato sorrise. Per la prima, forse l’unica, volta, il cupo e terribile viso di Dante manifestò una gioia; i suoi occhi e la sua fronte esprimevano le immagini di felicità da lui così magnificamente prodigate nel suo Paradiso. Gli sembrava, forse, di sentire la voce di Beatrice. […] – Partiamo – esclamò con voce tonante – Morte ai Guelfi! » (13).
Il Dante di Vittorio Vettori ricorda molto quello di Balzac – poeta e uomo di spirito, animoso come un guerriero, solido come una montagna, austero come un religioso. Il Dante prospettato dallo studioso casentinese gli assomiglia molto proprio per la sua capacità di prospettiva celeste e il suo sentire tutto umano che lo spinge al confronto e alla pugna morale contro un avversario sentito come indegno e meschino, ma pur sempre prevaricatore e potente. Il grande poeta fiorentino viene sempre visto, nelle magistrali pagine a lui dedicate da Vettori, come una figura di confine capace di attraversare la storia per congiungere il passato e il futuro nel suo eterno e sempre presente abito di contemporaneo.
Dante è stato oggetto di moltissimi studi da parte di Vettori – una parte di essi costituiscono un’analisi storica e teorica dell’opera del poeta, mentre una sezione cospicua di essa risulta legata al magistero dantesco attraverso i secoli.
Ciò è evidente, ad esempio, in un libro come Dante in noi (14) in cui vengono esaminate con attenzione e acribia le ragioni dell’accostamento necessario al poeta di Firenze:
«Cade a questo punto opportuno elencare tutta una serie di precise equazioni, con l’intendimento di ricapitolare le risultanze del nostro discorso dantesco, consapevoli come siamo che, essendo la grande poesia il vertice della civiltà, in essa necessariamente converge ogni vitale impulso dell’uomo. Poesia come storia. Non avremmo la “Commedia”, se non ci fosse stata una civiltà comunale strettamente collegata con l’utopia di Roma, utopia da Dante raccolta in tutte le sue implicazioni e genialmente slargata in una poetica (e antiretorica) romanità sempre valida e sempre esemplare. Poesia come politica. Non avremmo la “Commedia” se non ci fosse stato nella Firenze dei tempi di Dante, con Giano della Bella, un vigoroso orientamento verso la realizzazione di un giusto ordine sociale, che Dante poi ebbe a riprendere e a poeticamente trasporre su scala mondiale nel sogno suo dell’Impero. Poesia come religione. Non avremmo la “Commedia”, se Dante non fosse stato intimamente e intensamente agitato da quella che Carlo Bo ama chiamare “la violenta teologia dei poeti” e che meglio potremmo indicare come la religiosa coscienza di un compito superiore, come il conquistato possesso del significato sacro del vivere. Poesia come biografia. Non avremmo la “Commedia”, se Dante non fosse stato quel particolare uomo che fu, con la sua formazione e con le sue esperienze, coi suoi amici e coi suoi nemici, coi suoi amori e con le sue battaglie, coi suoi studi severi e con le sue fantasie generose, con le sue avventure e con le sue disgrazie: il tutto poi fuso e risolto nel fuoco di un’ispirazione sovrana. Poesia come dottrina. Non avremmo la “Commedia”, se Dante non avesse raccolto da tutta la precedente tradizione quella che egli stesso chiamò “la gloria della lingua”, valendosi del linguaggio allegorico come di quello simbolico, del linguaggio aulico come di quello plebeo, del linguaggio epico-classico come di quello lirico dell’innografia latina, in una sintesi vasta e compatta come il suo genio. Ecco perché, per arrivare al poema sacro, occorre anche passare attraverso la vita di Dante, sue relazioni e vicende, sue minori opere e testimonianze, senza fermarsi sul merito di certe controverse date e attribuzioni, Per esempio: Dante è stato a Parigi e quando? è di Dante la famosa “lettera a Cangrande”? sono autenticamente sue le Egloghe latine a Giovanni Del Virgilio? Quando precisamente è cominciata la stesura del poema? È o non è Dante il Durante autore del Fiore? Sono tutte questioni che non appureremo mai e si tratta di questioni, poi, marginali. La questione centrale è quella della “Commedia”. La quale essenzialmente è una grande architettura unitaria, una grande e indivisibile struttura poetica» (15).
Dante al di là della filologia, dunque? Non del tutto ma certo la conoscenza del mondo dantesco non può esaurirsi in essa e/o per essa. Vettori non ama però neppure le letture troppo avventurose o polivalenti del poeta fiorentino e anche libri pur pregevoli come quello di René Guenon sull’Esoterismo di Dante (16) non gli si confa perché troppo poco capace di gettare luce sulla dimensione profondamente storica della sua poesia. Dante è il maestro di vita di una vita e ad esso non è inopportuno fare riferimento per seguire le linee non esauribili di un disegno ecumenico di vita (quale volle essere la parabola di riflessione esistenziale dello studioso casentinese).
A differenza di un Croce (che ne rifiutava la struttura teologico-filosofica per accettarne soltanto i momenti lirici emergenti all’interno di uno sviluppo poematico che tendeva a negarli) o di Luigi Russo che rilevava come la letterarietà presente nel poema dantesco esaltasse la sua dimensione poetica pur situandosi al suo polo opposto per consentirne la scansione necessaria, Vettori considera proprio la struttura dell’opera maggiore di Dante l’elemento più significativo in essa:
«Struttura è proprio l’essenziale di un’opera, il suo contesto ritmico-immaginativo, il suo nodo coerente di significati e di stile: appunto l’elegia del Petrarca, come l’ampia onda descrittiva del “Decamerone”, come infine la drammatica tensione di Dante. La vera struttura della “Commedia” sta a ben guardare nella confluenza e sintesi della vocazione lirica e di quella epica: due vocazioni che in Petrarca e in Boccaccio troviamo separatamente rappresentate, e che convivono in Dante, ottenendo nella convivenza un reciproco stimolo di straordinaria vitalità e intensità. E’ impossibile trovare in un lirico puro l’infinita dolcezza di certi accenti danteschi; come è impossibile trovare in un narratore puro tutto l’incisivo vigore della “Commedia”. La quale, al di là delle squalificate classificazioni dei generi, potrebbe infine essere definita un’opera di altissima drammaturgia, dove il protagonista, Dante stesso in persona prima, si vale dell’elegia più soave e del più ardito realismo, della più vertiginosa ascensione e della più spregiudicata discesa in profondità, del più fervido pathos e della polemica più rovente, del più appassionato richiamo alla suggestione delle allegorie e dei simboli, e della più rigorosa trasformazione dei concetti in tangibili oggetti (e delle parti didascaliche in concrete “didascalie” integrative, e delle elencazioni ordinarie in squarci di epicità condensata), per dare un significato universalmente umano al suo personale messaggio. Messaggio niente affatto velleitario e retorico, ma tutto incarnato e vissuto direttamente nella figura di Dante, nella dinamica del suo salire, nella forza sempre più alta della sua voce, nell’arco sempre più ampio dei suoi umani rapporti. Messaggio non ideologico ma spirituale: e perciò – pur nella compiutezza della poesia – infinito: e perciò inesauribile. L’inesauribilità del significato della “Commedia” è strettamente collegata col mistero dell’ispirazione. L’ispirazione: qualcosa che sta non certo al di qua ma al di là del più agguerrito pensiero» (17).
Il magistero di Dante, allora, quella particolare forza di attrazione che lo ha reso un punto di riferimento formidabile per generazioni e generazioni di scrittori e che lo ha proiettato nel pieno del Novecento come una forza della natura poetica, è riconducibile, allora, alla sua capacità di assorbire al proprio interno i sogni e le aspirazioni, i momenti più cupi e quelli più sublimi, la natura umana e quella divina della soggettività che lo anima e lo trasporta al di là della pura e semplice terrestrità (nonostante l’importanza e la felicità della definizione di Erich Auerbach che lo voleva “poeta della realtà terrestre”). Non altrettanta forza trasformatrice Vettori trovava nel Novecento e nei suoi autori più magistralmente capaci di coglierne le contraddizioni e le condanne. Eppure anche qui egli ritrovava (ecumenicamente) delle eccezioni – prima fra tutte quella di Renato Serra. In un suo volume del 1969, Questa nostra letteratura (18), Vettori scriveva:
«Legata soprattutto alla seconda “Voce”, quella derobertisiana, ma con uno stacco nettissimo che ce la fa apparire a distanza di tanti anni straordinariamente alta e viva, la presenza di Renato Serra. Le lettere, L’esame di coscienza di un letterato, l’Epistolario sono le opere che ci restano di questo giovane geniale e scontento, solitario e comunicativo, innamorato della vita e legato da un’assidua meditazione alla morte. Il suo rigore morale, la sua sensibilità letteraria, il suo entusiasmo, la sua nobiltà, la sua insoddisfazione, la sua capacità di sgomento davanti al mistero: ecco in rapido elenco gli elementi che confluivano in quella che Carlo Bo ha giustamente chiamato “la religione di Serra”. Una religione fatta di domande, di soprassalti, di ansie, di analisi impietose e tuttavia apertissime alla pietà, di speranze nascenti dal profondo di un animo disperato. Una religione che sulla pagina si risolveva in una misura di scarna e vissuta poesia. Pochi altri scrittori del Novecento non soltanto italiano hanno così intensamente vissuto il dramma dell’io. […] L’io dunque, il dramma dell’io. Ed ecco qui di seguito come si svolge in Serra questo dramma fondamentale: “Io mi dico competente non a giudicare – che è un vocabolo vile, inventato dai trafficanti, quello cui sospinge necessità di tradurre i valori spirituali in moneta del mercato: graduatoria dei concorsi, stipendio, precedenza, anzianità – ma a cercare e guardare per tutto. In questo rappresenterò la misura degli altri e di me. E mi basterà che sia chiara: onesta nei suoi moti e ingenua nel suo intendimento. Il mio nome è uomo, il mio amore è delle gentili cose umane”» (19).
E allora, proprio alla luce di queste dichiarazioni di Vettori, è possibile trovare nella sua vocazione ecumenistica di apertura al dialogo, a guardare e cercare nel tutto ciò che unifica e non ciò che divide, ciò che può costituire un ponte verso il futuro (quel “San Futuro” che riaffiora nelle sue ultime opere letterarie come messaggio per i posteri) e non le preclusioni feroci e l’odio irreversibile nei confronti di chi è diverso, la dimensione di una “religione di Vettori”. Religione non certo dogmatica o fideistica, non fatta di precetti e norme, ma costruita sulla base di un sincero desiderio di speranza.
Nella letteratura italiana di quegli anni (e anche in quella successiva), lo scontro fu aspro e spesso settario, fondato su preclusioni di tipo ideologico e morale e non su aspettative condivise. Il compito “religioso” che Vettori volle darsi fu quello di creare una No Man’s Land in cui incontrarsi per tendersi la mano – non sempre fu ascoltato, non sempre riuscì a farsi comprendere…
«E tuttavia la stessa dialettica tra impulso fascista e impulso antifascista che è presente nella nostra storia civile contemporanea caratterizza anche – nelle forme proprie dell’attività letteraria – la nostra letteratura contemporanea. Tale dialettica affiora già nel rapporto Croce-Gentile, non solo grandi filosofi ma anche e soprattutto grandi poeti della filosofia, allorché, ancora negli ultimi anni del vecchio secolo e nei primi del nuovo, il primo configura il suo personale superamento del marxismo in termini conservatori, mentre il secondo dà praticamente l’avvio […] alla fondazione ideale del movimento fascista. Tutti i futuri atteggiamenti antifascisti del Croce sono già impliciti nel suo iniziale conservatorismo. E se è vero che una via della Storia passava attraverso la tensione rivoluzionaria rappresentata dall’interventismo (al quale tanti giovani scrittori in quei giorni aderirono), è anche vero che un’altra via della storia passava attraverso il giolittismo e il neutralismo del Croce ed era infatti destinata a perpetuarsi durante l’entre-deux-guerres nelle forme di un’opposizione culturale sempre più vasta. D’altra parte va anche detto che l’opposizione culturale al fascismo non fu soltanto un’opposizione conservatrice. Anche sul fronte della rivoluzione, motivi d’intransigenza per l’appunto rivoluzionaria, di eleganza formale e di severità etica suscitarono contro il fascismo l’ostilità di numerosi intellettuali e scrittori estranei al conservatorismo, da Gramsci e Gobetti a Silone e Jahier. E non va dimenticato il fatto che lo stesso conservatorismo crociano, affinato già nel suo incisivo confronto col pensiero di Marx, trasse dal suo lungo rapporto polemico col fascismo nuove ragioni di affinamento, nuove energie per restare quel che era sempre stato e cioè un conservatorismo essenzialmente d’avanguardia. Questa considerazione ci riporta nel vivo del nostro discorso, con l’obbligo di presentare la successione delle varie avanguardie, ciascuna nel suo interno contrasto tra fascismo e anti, ciascuna nella sua intima spinta a superare il suddetto contrasto in quella prospettiva postfascista che chiameremo, con le parole di Giaime Pintor, la prospettiva della “vera rivoluzione”» (20).
In questa dialettica originata (secondo Vettori che utilizza le categorie di giudizio ricavate dalla lettura di un libro di Augusto Del Noce sul “superamento” del marxismo [21]) dalla necessità di fare i conti con Marx (22), si inserisce il carattere “rivoluzionario” di un fascismo che non voleva essere pura esigenza conservatrice bensì trasformazione profonda della cultura e della politica italiana. Secondo Vettori, il fallimento di questa volontà trasformatrice ha portato a una crisi dello stesso fascismo, agitato da una volontà riformatrice (legata, ad esempio, alla corrente che faceva riferimento a Giuseppe Bottai) e da un’altra più retriva e incapace di adeguarsi a quel lievito rivoluzionario che, invece, le menti migliori del movimento avrebbero potuto portare all’interno della cultura nazionale. Anche su questo punto, allora, la volontà pacificatrice di Vettori si serviva dei fondamenti politico-filosofici di un periodo importante ma travagliato della riflessione speculativa italiana per tentare un superamento delle contraddizioni, già presenti durante il momento del fascismo vittorioso, che sarebbero riesplose al momento della sua fine e del suo crollo sanguinoso.
3. In mezzo scorre il fiume della poesia
Per fortuna, tuttavia, Vittorio Vettori ha provveduto da solo e ha a più riprese antologizzato se stesso nelle diverse tappe della sua lunga e feconda esistenza. Non è un caso il fatto che, con un fortunato calembour sulle date e sui tempi trascorsi, uno dei suoi ultimi volumi editi in vita rechi il titolo di Metanovecento (Poesie 1950-2000) [23] a simboleggiare un percorso che dal dopoguerra si snoda fino all’inizio del secolo nuovo. Un tragitto però non fatto soltanto di anni ma di cammino concettuale e basato su una serie inesausta di aspettative che trascendono il presente e si protendono verso il futuro. Almeno altre due antologie (24) erano già uscite in quei cinquanta anni di vita operosa a scandire la lunga fedeltà di Vettori alla “sua” poesia, ma quest’ultima e monumentale ed esaustiva (non foss’altro proprio perché è l’ultima) costituisce uno strumento pressoché definitivo e di grande rilevanza critica per capire il perché della sua scrittura poetica e delle sue ragioni germinali profonde. Che cos’era, infatti, la poesia per il poeta del Casentino? Un grande fiume in piena – se bisogna credere a una sua pregevole e inquietante definizione:
«IX. (Sul poeta e le voci).
La voce del poeta (vero e non mero) è come un fiume /
reale cui concorrono affluenti che all’inizio /
furono semplici torrentelli saltellanti sui /
sassi in mezzo a remoti boschi di montagna /
e affluenti diversi che equivalgono a echi di /
altre voci sovrane altrettanto vere e /
altrettanto vive. Per questo nel gran fiume vocale /
del poeta veramente sovrano nominato Ezra /
Pound sarà sempre possibile a un orecchio esercitato /
distinguere altre voci minori o maggiori, assorbite, /
echeggianti. Tra le prime notabile pare l’umile /
voce privata ma qui – dentro ai Cantos del poeta che /
affettuosamente noi chiamavamo zio, Oncle Ez, e che /
notoriamente era figlio di Homer L. Pound, figlio di
Omero –
invero potenziata al massimo, non diversamente da /
quell’ altra voce, in antico sommessa e però qui resa /
infinitamente più spessa, più robusta, più /
alta e solenne, che era la poetica voce quotidiana /
collegata alla musa familiare (e popolare) dell’opere /
e dei giorni, cronache cronistorie e cronachette. Queste /
minori voci confluivano nel gran fiume reale (real) /
dei Cantos e diventavano subito grandi, totalmente /
assorbite dall’impetuoso corso di un poema /
vissuto sofferto scritto simultaneamente come /
bilancio, provocazione, profezia, azzardo (divinatorio) /
e confessione d’anima. Poi c’erano gli echi di altre voci /
sovrane: Confucio Dante Lorenzo Jefferson Yeats. Nella /
grotta del giovane generoso queste voci echeggianti /
diventavano interne ai Cantos, parte viva del loro /
maestoso incesso musicale, necessario sfondo per le due /
supreme voci del dolore in gioia trascolorante e della vita /
che a se stessa muore perché la morte finalmente viva » (25).
E’ un ritratto a tutto tondo di Ezra Pound, l’amato maestro (poetico e culturale) degli anni giovanili venerato fino alla fine (26), ma è anche (e soprattutto) un (auto)-ritratto “in piedi” di se stesso, compiuto alla luce degli anni e consegnato al destino che avrà presso i posteri. Il poeta è, dunque, un fiume che scorre attraverso i monti e la pianura del mondo reale e attinge a tutti i rivoli e a tutti gli affluenti più o meno grandi che riesce a raggiungere e sussumere entro di sé. Un fiume largo e maestoso, non un torrente di primavera che all’arrivo dell’estate languisce e si rarefa: la sua larghezza deve essere pari alla sua forza e alla sua fluente potenza. L’idea forte della ricostruzione effettuata da Vettori è che la grandezza del poeta è fatta (anche e soprattutto) da coloro i quali affluiscono in lui come torrenti impetuosi e incontenibili con l’esempio e la forza della loro intrinseca qualità di maestri. Pound è stato grandissimo poeta proprio perché ha saputo inglobare dentro la propria scrittura poetica le “voci sovrane” dei suoi Maestri naturali (Dante, Confucio, Lorenzo de’ Medici, Jefferson e Yeats). Così Vettori sarà ricordato come poeta proprio perché tra le voci che ha ospitato c’è stato il Pound della maturità e della vecchiaia. La poesia, allora, vista nell’ottica vettoriana dell’umiltà orgogliosa dell’accoglienza, è fatta sì per aprirsi all’Altro costituito dalla vita e dal mondo del reale ma (anche e soprattutto) dall’incontro/incrocio con le esperienze dei Maestri che si sentono congeniali alla propria cultura letteraria e che faranno emergere proprio dal confronto e dalla commistione con essi l’originalità presente nell’autore che li accoglie entro la propria opera. Un rapporto di dare e avere, dunque: prendere per poter poi restituire con gli interessi dell’ispirazione e dell’amore è l’idea che Vettori (soprattutto nel suo ultimo e più maturo approdo alla poesia) configura come la sua prospettiva di poeta che accumula e congiunge, spesso unifica e mescola, sovente addirittura inghiotte e travalica invece che separare e dividere.
Una importante verifica di questo assunto è costituito in Vettori dalla sua ammirazione/ospitalità nei confronti di Osip Mandelstam. Come si può leggere nel già cit. Dalla parte del Papa:
«Angelo Maria Ripellino, nella sua splendida nota introduttiva alla Quarta Prosa, giustamente sottolineava la costante coerenza di Mandelstam rispetto alla posizione di apertura già dichiarata da Blok nell’ode Gli Sciti: “Noi amiamo tutto: e l’ardore dei freddi numeri / e il dono delle visioni divine. / Tutto ci è comprensibile: e l’acuto spirito gallico / e il tenebroso genio germanico… / Noi ricordiamo tutto: l’inferno delle strade parigine, / il fresco di Venezia, la lontana / fragranza dei boschetti di limoni…”. Ma, a differenza di Blok, che fino all’ultimo si sforzò di storicizzare, politicizzandolo, il suo forte sentimento religioso, Mandelstam, al contrario, tendeva a rinverdire dall’interno la dimensione metafisica della realtà storica. In questo senso e per questo motivo, si fece alunno di Dante, fino al punto di identificarsi o quanto meno di confrontarsi con lui. Leggiamo, per esempio, una delle ultime liriche: “Mi sono perso nel cielo… Che fare? / Risponda chi gli sta vicino. / Più facile era per voi, nove di Dante / dischi da discobolo, risuonare. / Me e la vita, nessuno può dividerci – lei sogna / di uccidermi, e subito dopo di blandirmi, / perché orecchie, occhi, orbite siano pieni / di nostalgia di Firenze. / Non mettetemi, non mettete / l’acre-tenero alloro sulle tempie, / piuttosto stracciatemi il cuore / in brandelli di suono azzurro. / Perché quando, finita la mia parte, morrò, / amico in vita di tutti i viventi, / risuoni più largo e più alto il richiamo / del cielo nell’arco del mio petto”. » (27). Ridotto a vivere nel poco e squallido spazio di un lager siberiano, Mandelstam, finalmente, trovò la sua autentica patria in quel vittorioso passaggio “all’Eterno dal Tempo” che è nella sua essenza il poema dantesco. Più che un normale commentatore della Commedia, Mandelstam potè (finalmente) esserne un assiduo frequentatore e, in pratica, un abitatore fedele. Dalla quotidiana frequentazione di Dante, Mandelstam traeva la più consolante delle conferme alla sua vocazione di poeta-profeta, nato per vivere non nel presente ma nel futuro, perché i canti della Commedia – come leggiamo nel mirabile Discorso su Dante, scritto da Mandelstam nella fase finale della sua vita – «sono proiettili scagliati per captare il futuro e esigono un commento futurum»
Come Pound e come Mandelstam, Vettori ha scelto di trasformare la propria poesia in un fiume ampio e maestoso che va verso la sua meta arricchendosi e confortandosi con tutti i contributi che possono dargli i maestri (ma anche gli allievi) che si è scelto in tutta libertà.
(continua)
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NOTE
(1) Il romanzo uscì in prima edizione presso Cappelli di Bologna nel 1973; è stato poi ristampato, insieme a L’oro dei vinti del 1983 e Sulla via dell’arcangelo del 1993 nel volume Destini e segreti. Tre romanzi, Viareggio – Lucca, Mauro Baroni Editore, 2001.
(2) M. BIONDI, “La leggenda del Vettori”, introduzione a V. VETTORI, Civiltà letteraria, cultura e filosofia, a cura di M. Biondi e A. Cencetti, Firenze, Le Lettere, 2009, pp. 12-13.
(3) Si tratta di Benedetto Croce e gli studi contemporanei d’estetica e storia, Firenze, Editrice Universitaria, 1951.
(4) Giovanni Gentile e il suo tempo, due volumi, Roma, Editrice Italiana, 1966 (poi ristampata sempre a Roma presso la ERSI Edizioni negli anni che vanno dal 1970 al 1973).
(5) V. VETTORI, Civiltà letteraria, cultura e filosofia cit. , pp. 73-74.
(6) V. VETTORI, Civiltà letteraria, cultura e filosofia cit. , pp. 76-77..
(7) V. VETTORI, Civiltà letteraria, cultura e filosofia cit. , p. 120.
(8) Quest’aspetto del pensiero di entrambi (Croce e Gentile) viene esaminato con cura da Vettori alle pp. 132-133 dell’antolofgia qui più volte citata.
(9) Quest’opera di Prezzolini viene edita con questo titolo a Firenze dalla Società Editrice “La Voce”nel 1923 . Sarà poi ristampata dall’editore Corbaccio di Milano nel 1930.
(10) V. VETTORI, Civiltà letteraria, cultura e filosofia cit. , p. 124
(11) Il libro di Herbert Marcuse dedicato a Ragione e rivoluzione. Hegel e il sorgere della teoria sociale è del 1941 (la sua prima trad. it. di A. Izzo è del 1966 ed è uscita presso la casa editrice Il Mulino di Bologna). .
(12) V. VETTORI, Civiltà letteraria, cultura e filosofia cit. , p. 207.
(13) H. de BALZAC, I proscritti, trad. it. e introduzione di D. De Agostini, postfazione di A. Mazzucchi, Roma, Salerno, 2003, pp. 78-80.
(14) Pubblicato a Pisa, presso Giardini, nel 1965.
(15) V. VETTORI, Civiltà letteraria, cultura e filosofia cit. , pp. 239-240.
(16) Cfr. R. GUENON, L’esoterismo di Dante, trad. it. di G. Cillario, Milano, Adelphi, 2007.
(17) V. VETTORI, Civiltà letteraria, cultura e filosofia cit. , p. 241.
(18) Anch’esso pubblicato a Pisa presso l’editore Giardini.
(19) V. VETTORI, Civiltà letteraria, cultura e filosofia cit. , pp. 309-310.
(20) V. VETTORI, Civiltà letteraria, cultura e filosofia cit. , pp. 282-283.
(21) Cfr. A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, Bologna, Il Mulino, 1964 (in prima edizione).
(22) Croce pubblicherà nel 1900 un libro su Materialismo storico ed economia marxistica in cui raccoglieva tutti i suoi contributi sul pensiero di Marx; uno dei libri di esordio di Gentile, invece, era dedicato a La filosofia di Marx (Pisa, Spoerri Editore, 1899) riletta in chiave eminentemente fichtiana.
(23) Il volume è stato edito a Viareggio – Lucca sempre da Mauro Baroni Editore nel 2000.
(24) Verificando tra di esse la loro qualità esemplificativa, non si possono dimenticare la prima di esse (Acquadarno, Siena, Maia, 1965) e così pure non può essere trascurata Una lunga gioventù (Padova, Rebellato, 1981), raccolta quest’ultima auratica per la comprensione della poetica di Vittorio Vettori. Per una bibliografia (ancora incompleta) della sua opera fluviale di Vettori, cfr. il saggio di R. CÁRDENAS, “Dal Solano all’Oceano-vita: ottant’anni di viaggio” in appendice al volume collettivo Il Giubileo letterario di Vittorio Vettori, a cura di R. Càrdenas, con un saggio introduttivo di M. Biondi, Firenze, Edizioni delle Giubbe Rosse, 2001, pp. 219-226.
(25) V. VETTORI, Metanovecento (Poesie 1950-2000) cit. , pp. 357-358.
(26) E infatti del “maestro” dei suoi primi anni d’approdo alla scrittura letteraria, Vettori dirà in “Ezra Pound tra due fuochi”: “Ecco a questo punto delinearsi il rapporto che è in pari tempo un rapporto di divaricazione e un rapporto di convergenza tra l’autore della Commedia e l’autore dei Cantos. La divaricazione e la convergenza, al di là ovviamente di ogni valore, in quanto la Commedia costituisce per noi, come certamente costituiva per Pound, un unicum incomparabile, riguardano rispettivamente l’impianto e gli esiti delle due opere, nella diversa tensione che per l’una e per l’altra viene a stabilirsi tra vocazione e destino. Vocazione e destino si conciliano pienamente nella Commedia, fin dal principio, l’una rispecchiandosi nella plenaria maturità del poeta che ha già fatto tutte le sue scelte fondamentali, compiuto tutti i recuperi necessari, reciso dall’albero della sua vita le incompatibilità e le eccedenze, e l’altro, il destino, esprimendosi nella sconfinata disponibilità dello scriba costantemente sostenuto dalla duplice ispirazione della Grazia che illumina e dalla Bellezza che salva. Per Pound invece il discorso è completamente diverso. La sua vocazione di canto, che si manifesta già adulta in A lume spento, non è tuttavia ancora in grado di reggere, nella dinamica linea dei Cantos, l’armoniosa totalità di un destino, proprio per via delle spinte divaricanti che si riflettono nel bipolarismo cavalcantiano-dantesco a cui si accennava più sopra. Da qui, la struttura aperta dei Cantos, il loro carattere di work in progress, la tecnica stessa del loro farsi nella dimensione orizzontale di una sterminata spazialità di cultura” (si tratta di un saggio poi ripreso in Dalla parte del Papa, Milano, Spirali, 1989, pp. 158-159).
(27) V. VETTORI, “Tempo di Mandelstam” in Dalla parte del Papa cit., pp. 48-49.