di Lele Mastroleo
Pasquale Urso: Lavoro nel vicolo (Acquatinta)
Dalle ferite della Torre di Mezzo non si vedevano più i colori delle vele che avevano lasciato da quasi due ore la calata del porto dalla parte dello scoglio della Monaca sino a virare lungo i tagli della corrente del Pasca e proseguire all’orizzonte per poi scomparire.
Sali Agostina – disse cummare Ndeddha – vieni a vedere. Se sei fortunata vedrai il tuo Mecu che saluta con la mano. Santo e beddhu come pochi il tuo Mecu. Ringraziasti sempre poco la Madonna che te lo mandò quel giorno alla tagliata del duca-re a chiamare gli uomini prima che arrivasse quel fortunale, triste iernu che fece specchiare la terra al cielo.
La Madonna ebbe occhi di santa e carezze di madre a mandare mio marito a salvarci dalle furie e dalle saette de Padre Iddio.
Misero la coperta bianca alla finestra e uccisero l’agnello più grasso e legarono tutte le speranze a Signore Santo e a Santu Nicla nel rivedere sani e salvi quegli uomini. Agostina si appoggiò alla sedia di padre Neno e snocciolò con lui tutto il rosario e sgranellò morsi di labbra e preghiere nel racconto dei suoi pensieri. Mise un altro ciocco al camino che intanto ascoltava pezzi interi di amori e litigi, e scaldava le ossa dalle umidità disparate di quella gente.
Ndeddha passasti a portare il pane al Capitano stamattina, si era tanto comandato povero figlio? Dice che non metterà mai la pianta di un solo piede su nessuna imbarcazione se non ha con sè una palata di pane di padre Neno.
Certo padre, che passai, alla settima ora stavo già sotto casa sua e diedi la palata e una grappola d’uva alla moglie sua. Moglie, diciamo. Se si può dire!
Il Capitano non si era mai sposato. Divideva, da anni ormai, la sua casa con una donna. Una ragazza di una bellezza quasi magica, misteriosa, di una bellezza enigmatica, imperscrutabile. Infatti per tutto il paese era: la Fata. Di lei non si sapeva quasi nulla. Salvo frammenti di passato che non si sapeva fossero veri o appartenessero alla leggenda. E poi quell’accento trascinato, incerto, malcelato faceva di lei una donna quasi osteggiata dal paese. Rispettata perchè compagna del Capitano, ma mal sopportata per i modi poco espansivi con i quali amava rapportarsi agli altri.
Smettila Ndeddha di parlare male della gente, la riprese il padre, e portami della brace in camera che è giunto il momento di mettere ordine e pace alla mia vecchiaia anche per oggi. Ndeddha obbedì sbuffando ed incrociò lo sguardo severo del padre che l’aveva scorta dall’uscio di casa.
Dove siete luna delle parole d’amore e delle carezze, in questa sera di separazione e spavento? Dove avete portato gli occhi del sole a dormire? Perchè non richiami indietro il vento a riportarci le braccia dei nostri uomini che riempiono di sangue e vita le lenzuola?
Agostina salutò padre Neno e la figlia, mise sulle spalle lo scialle blu che le aveva regalato il marito, se lo strinse forte in petto e sulla faccia e uscì.
Il cane di Ferruecchiu era ubriaco più del padrone quella sera e sbandava incerto sulle zampe e si fermava solo per le carezze del padrone che anche lui malfermo sulle gambe cercava la strada più corta per arrivare a casa.
Salute a voi, bella Agostina, un caro saluto da Nicola e dal suo servo padrone. Sempre servo vostro padrona Agostina e servo della vostra bellezza, declamò con l’ultimo barlume di lucidità Ferruecchiu prima di cadere disteso dritto sulla propria pancia e sulla testa di quel povero cane.
Andate a casa, padre Nicola che il cielo non promette niente di buono questa notte – rispose la ragazza mentre entrava a casa- e badate meglio a voi e a quell’ animale che vi accompagna.
In quel mentre si senti un tuono spaccare il silenzio ancestrale di quelle vecchie mura e un brivido serrare le spalle alle donne. Rientrò in casa con un salto e richiuse la porta con tutti i saliscendi che c’erano e fece appena in tempo a togliere le scarpe prima di trovarsi esausta a letto.
Erano ormai passati sei mesi dall’ultima mestruazione e la felicità di quella gravidanza non era paragonabile a nessun’altra gioia. Il padre di suo figlio, il padre del loro figlio l’aveva amata come mai avesse fatto quella sera quando glielo disse e le tenne la mano tutta la notte. Come un bimbo quando ha paura del buio e cerca la mano della madre per rassicurarsi del cuore che gli batte in gola, così il marito quella notte dormì con le mani nelle sue mani e solo l’alba riuscì a separare quell’unione.
Ed anche al mattino l’amò con tutta la dolcezza che conosceva e con delicatezza quasi per preservare quella creatura che le nasceva in grembo.
Ti amo, le disse quella mattina, e le parole che ho in testa non hanno più senso e non hanno più ragione se mi basta solo guardarti per capire di essere l’uomo più fortunato dell’universo.
Lo chiameremo come tuo padre – propose lei mentre lo abbracciava – lo chiameremo come tuo padre - aggiunse.
Il rumore di una saetta che squarciava il cielo la risvegliò e la riportò alla realtà.
Non aveva ancora cenato quella sera e la creatura che le cresceva dentro glielo ricordò con una fitta tremenda allo stomaco. Pane e latte caldo. E si mise a letto.
Tornerà presto. Ed appena tornerà, con i soldi che ci ha promesso il duca-re, costruiremo finalmente la casa che abbiamo sempre sognato, con un camino grande e un terrazzo enorme per guardare tutte le sere il mare, pensava questo Agostina mentre il sonno pian piano la rapiva.
Mentre un fulmine spietato lacerava il mare e una poesia senza parole si levava dall’albero maestro di una nave di cartone.