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Una questione di carattere

Da Marcofre

Non è solo una questione di carattere perché è necessario sedersi a una scrivania, e restarci per delle ore. Mi riferisco anche a questo, certo. Penso che il carattere sia quello che dopo, sulla pagina cartacea oppure digitale, crea lo stile. Infatti “carattere” deriva sì dal latino, però ci arriva dal greco, e significa impronta.
Quando si legge in quantità industriali, sorge il dubbio di non riuscire affatto a costruire il nostro stile personale. Si scrive, ma il terrore è di rimasticare quello che abbiamo letto.

È un rischio inevitabile, con il quale si deve fare i conti, ma è proprio allora che dovrebbe saltare fuori il carattere.

Scrivo “dovrebbe” perché non è detto che accada.

È la stessa parola che spinge l’individuo a modellare un carattere differente. Il solo atto di leggere, di separarsi dagli altri, richiede un impegno notevole. Lo so che si può leggere un oroscopo, ma per me leggere vuol dire: Zola, DeLillo, eccetera eccetera.

Può sembrare una contraddizione: non è richiesto alcun carattere per vivere, in realtà: basta adattarsi. Seguire le mode. Il tronco nella corrente del fiume è unico, ha una sua personalità (magari legnosa, vero?).

Quando però si incontra la parola, questa spesso ci svela che l’addio alla postura a quattro zampe non vuol dire solo spostarsi in metropolitana tenendosi agli appositi sostegni. È necessario dell’altro. Immagino che ogni libro possa essere un passo che ci allontana dal gruppo, e ci avvicina a una dimensione del tutto inedita. Qualcosa che ci regalerà occhi nuovi, una nuova comprensione del mondo.

A ogni libro, che si tratti di Torgny Lindgren o Richard Yates, si ricomincia. Si alza l’asticella, si ampliano i confini della comprensione. In un certo senso, si conferma la propria fedeltà a un cammino a volte iniziato per caso, ma che affatica sempre. Quando perciò parlo di “carattere”, intendo il lavoro che è necessario intraprendere su se stessi per sfuggire all’omologazione. Come se non bastasse, oltre a questo diventa necessario (quando si è presa la decisione di scrivere), costruire appunto il proprio carattere. In modo che il lettore abbia tra le mani una voce forte, distinguibile, e che la storia sia efficace e di valore.

A volte ci sono della basi, altre volte no, oppure sono mediocri. Ma un punto deve essere chiaro: la parola non può essere portata in spalla, oppure ostentata.
Ma vissuta, fatta propria, e deve modellarci, almeno un poco.

La lettura degli autori classici ha gli effetti di un terremoto perché rade al suolo la nostra personalità importata, e dopo ci chiede di metter mano alle macerie per ricominciare. C’è anche del materiale nuovo si capisce, nulla può essere come prima, ma non possiamo gettare tutto nella discarica. Dobbiamo recuperare qualcosa. Deve esistere la determinazione a distinguere e recuperare, assieme alla necessità di rinforzare, o creare il nuovo.

Un impegno su due livelli quindi. Sfuggire all’omologazione, alla fatica del ragionare, del distinguere. E creare una voce, un carattere proprio, capace di catturare il lettore.

Il primo dovrebbe essere un dovere di tutti; il secondo di chi vuol scrivere.


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