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Una sfida impossibile?

Creato il 22 gennaio 2012 da Stukhtra

Digerire la matematica

di Tobià Dondè

“Io di numeri non ci capisco una sega”. “La matematica mi fa schifo (quindi è inutile)”. “Sono solo pippe mentali”. Eccetera eccetera. Credimi, per uno che la studia, a un certo punto viene solo voglia di dire: “E fatti i cazzi tuoi, che la matematica si fa i suoi!”. Dietro alle innumerevoli lamentele dei numerofobi, però, si cela uno dei grandi problemi della divulgazione: come diavolo fare a rendere comprensibile (e soprattutto appetibile) la più pura delle discipline? La letteratura in merito è vastissima. Io, misero studente che ancora sbatte la testa sui libri, non pretendo certo di presentare la soluzione bell’e pronta. Trovo però utile che ci si rifletta su. Tutti. Compresi i caproni che si riconoscono nelle domandeiniziali.

Due sono le critiche mosse alla matematica: l’incomprensibilità e la cripticità. E sono differenti. L’incomprensibilità ha come soggetto critico un caprone, una persona che non si è mai sforzata di capire (né tantomeno di apprezzare) un universo che può dare soddisfazioni fin da subito, almeno a coloro che vi si applicano. Al riguardo è inutile proseguire oltre (“Conosco solo due cose infinite…”, diceva Einstein). La cripticità è qualcosa di più sottile: è l’impressione che un individuo trae da alcuni risultati matematici che, sebbene non impossibili da capire, sembrano però inutili, superflui o ridondanti. Eccoci giunti allo snodo fondamentale: il formalismo, cioè l’utilizzo di un sofisticato linguaggio formale. E’ proprio il formalismo che dà l’impressione di qualcosa “in più”.

Perché proprio un tale linguaggio per la matematica? Perché è sintetico: non dice nulla di più e nulla di meno di ciò che vuol dire. Perché è univoco, e quindi permette di confrontare oggetti, costruzioni, proposizioni. Perché è preciso, non dà adito a fraintendimenti. E’ il linguaggio giusto per un linguaggio, perché sappiamo che la matematica è a propria volta il linguaggio della scienza (ma non solo…). Al contrario di quanto si potrebbe credere, la formalizzazione del linguaggio matematico è cosa abbastanza recente. Concetti come i gruppi algebrici, sebbene alquanto semplici e universalmente riconosciuti da tempo, hanno trovato autonomia e rigore solo nella seconda metà del secolo scorso. Prima di allora esistevano diversi linguaggi, per cui era difficile o perlomeno complicato attuare un confronto. Ogni scuola di pensiero annotava i risultati in maniera diversa. I Pitagorici, almeno agli albori, non scrivevano neanche!

Tornando a noi, il problema, quando non si conosce una lingua, è che non si capisce un tubo. Siamo d’accordo. Ed è esattamente ciò che accade a chi si avvicina alla matematica (parlo di quella universitaria, non i conticini delle Superiori) senza neanche aver idea di che cosa voglia dire formalizzare. A chi, tanto per intenderci, non sorride quando carpisce un’epsilon volare in una conversazione qualunque. L’analfabetismo matematico (e più in generale scientifica) è una piaga profonda non solo in Italia ma quasi ovunque nel mondo. E’ ancor più grave perché è il linguaggio che usiamo per svelare i misteri sulla vita e sull’universo. Galileo parlava dei due libri per leggere la Natura, e quello comprensibile era scritto “in linguaggio matematico”. Sì, ma chi può capire l’importanza dell’entropia se non conosce il concetto di variazione?

Attualmente nel mondo ci sono diversi tentativi di far passare un’immagine nuova della matematica, un’immagine non statica ma dinamica e interattiva. Per restare nei nostri paraggi, si pensi ai Festival della Matematica organizzati negli anni passati a Roma. Oltreoceano, all’imminente apertura del Museo della Matematica a New York. Questi esperimenti cercano di coniugare il formalismo col mondo di ogni giorno attuando una mediazione ma, laddove ciò non sia possibile, rinunciando a formalizzare e puntando sull’aspetto intuitivo-grafico della materia.

Il problema che mi pongo io è: invece di girarci attorno, potremmo provare a rendere piacevole il formalismo stesso? E’ chiaro che ciò risulta impossibile all’interno di un Paese completamente analfabeta da questo punto di vista. Una persona che non ha mai sperimentato da sé il processo di astrazione, l’applicazione di strutture alla realtà quotidiana, la modellizzazione non può sperare di apprenderli solo perché ci si mette dello zucchero sopra. Proporre esperienze simili è compito della scuola e, per quanto sia difficile, è un dovere che va assolutamente assolto. Solo dopo si può impostare una “didattica del formalismo”, magari improntata al gioco (come la logica, un campo che si presta a quiz ed enigmi).

Per me, che cerco ancora di spiegare ai miei genitori che cosa studio all’università, poter condividere l’entusiasmo per questa meravigliosa materia non solo con un ristretto gruppo di altri suoi studiosi è una necessità impellente. Persino le altre facoltà scientifiche rifuggono il confronto con la matematica, un po’ perché non c’è molto in comune, un po’ per il fatto che l’astrazione dà sempre un po’ di vertigine. In fin dei conti è vero. Ma, siccome sappiamo che cos’è la vertigine (tra l’altro, Jovanotti è una miniera di versi in stile “matematico”), perché preoccuparcene? Perché non goderne, invece? Che non ci sia qualcosa che anche il soggetto estraneo alla matematica possa fare? Del resto, per un incontro tra due persone è necessario un avvicinamento da parte di entrambe. La prossima volta che incontri la matematica, avvicinati per primo: non si sa mai che ti riservi qualche bella (e assolutamente innocua) sorpresa.


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